Wild: la recensione di Mauro Lanari

Wild: la recensione di Mauro Lanari

Mai capito il senso dell'”on the road”, in nessuna delle sue divers’accezioni. L’inizio fu esplicito: “Dove andiamo?” “Non lo so, ma dobbiamo andare” (Kerouac, p. 17). Variante sul tema: “Non conta la meta ma il viaggio”. Spirito d’avventura, della frontiera, d’esplorazione, pionierismo, escapismo, fancazzismo, un po’ tutte queste cos’assieme. Carino il periodo wendersiano all’insegna del “motion is emotion” ma sciocca l’idea. Nell’83 Lucio Dalla sembrò replicar loro cantando “Lontano da dove” nell’omonimo film italiano. Nel ’99 ci fu il caso d'”Una storia vera” (che Sorrentino ammette com’influenza primaria del suo pessimo “This Must Be the Place”, 2011), biopic d’un Lynch così arrendevolmente bucolico, pacificato ed ecumenico da venir prodotto e distribuito dalla Disney. Poi giunsero “Grizzly Man” (Herzog, 2005) e “Into the Wild” (Penn, 2008): altri biopic ma stavolta nefasti su ragazzotti ingenui e spavaldi che si gettavano nella natura selvaggia per ambientalismo, per sfida, per cascami ottocenteschi di ciò che nel 1917 Rudolf Otto aveva definito “fascinans et tremendum”, ambivalenza in cui il fascino deriva proprio dall’affrontare un qualche elemento terrorizzante. Successiva modifica del tema: “Il cammino per Santiago” (Estevez, 2010), e il tragitto diventa catartico pellegrinaggio fisico d’autocoscienza, espiazione, redenzione da sensi di colpa e per l’elaborazione di lutti e traumi. La novità più recente è al femminile: “Tracks” (Curran, 2013) con Mia Wasikowska e adesso “Wild (Jean-Marc Vallée, 2014) con la Witherspoon che di tanto in tanto mostra le tette. 1700 miglia della prima contro le 1100 della seconda. Però la vittoria massmediatica spetta a “Wild”: trasposizione dell’autobiografia “Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail”, tradotta da noi “Wild – Una storia selvaggia di avventura e rinascita”, 1a in classifica nella lista del “New York Times Best Seller”, scelta da Oprah Winfrey per inaugurare il suo “Book Club 2.0”, la Strayed è stata presa com’iconica eroina di riferimento per l’incasinate donne occidentali del XXI secolo. Ha interrotto la psicoterapia poiché non l’avrebbe condotta a nulla e s’è fatta paladina della somatoterapia (suppongo ahimé con analoghi risultati, com’attesta il finale intriso della “retorica semplicistica che ha contraddistinto gl’ultimi romanzi dello sceneggiatore, Nick Hornby”. La mano dello scrittore inglese dovrebbe vedersi nella scelta della soundtrack e nei continui inserti di flashback che rendono non lineare un racconto il quale tuttavia, rispetto a”Tracks”, è “altrettanto sterile, meno paesaggi da urlo, ma la stessa descrizione didascalica del viaggio.” Il regista Vallée “mantiene tutti i difetti del precedente ‘”Dallas Buyers Club’ senz’i pregi” in un’ulteriore sorta di “survival movie”.

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