Andrew (Miles Teller) è un giovane studente iscritto al primo anno di una prestigiosa scuola di musica newyorkese. E’ determinato e molto abile a suonare la batteria, un’autentica passione. La sua famiglia lo considera una specie di nerd outsider, cosa di cui è pienamente consapevole e orgoglioso: non ha amici, non pratica sport e va al cinema col padre a vedere vecchi classici. Insomma è l’esatto opposto del giovane americano intraprendente e sportivo. Un giorno Terence Fletcher (J.K. Simmons), il più temuto insegnante della scuola, lo vuole nella propria jazz band per partecipare a concorsi musicali. Il livello richiesto è altissimo, gli esercizi estenuanti e gli sproni e le umiliazioni dell’inflessibile maestro si fanno sempre più pressanti. Andrew ce la mette tutta e si cala completamente nella sua folle passione che lo allontana sempre più dalla quotidianità e lo relega in un mondo a parte, lontano dai coetanei, dagli svaghi e dall’amore. La severa figura di Fletcher domina la sua vita e la tensione di Andrew verso la perfezione diventa non solo sfida con se stesso, ma col maestro in persona, un uomo che sottopone gli studenti a massacranti prove al limite della sopportazione fisica e si dimostra anche crudele, insensibile a qualsiasi dolore o cedimento umano. Un gioco al massacro psicologico, dove il maestro sembra crescere in superbia ed energia, tanto più l’allievo è schernito e vessato. Non c’è nessun rapporto costruttivo tra allenato e allenatore, visto in tanti film americani, non c’è nessuna crescita umana, tra alti e bassi, nelle dinamiche tra i due. Fletcher è più distruttivo che costruttivo, è più egoista che altruista: i suoi allievi non devono sfigurare ai concorsi per non fargli perdere la reputazione. E’ una gara a chi primeggia, a chi arriva più in alto, si direbbe quasi a costo della propria vita. Il sudore, le escoriazioni sulle mani, il sangue, la stridente tensione diventano tangibile presenza sullo schermo e lo oltrepassano per disturbare chi guarda il film. Ci si aspetterebbe un finale drammatico per Andrew, vessato fino all’ultimo davanti ad una vasta platea, ma il film ribalta la situazione e il gioco d’un tratto passa in mano al giovane e diventa lui stesso a dettarne le regole. Il maestro s’indispettisce, pensa già alla vendetta, ma poi sta al gioco, non può fare altro in una serata come quella. In una memorabile esibizione a solo, al limite della resistenza fisica e a tratti quasi insostenibile, s’accende una scintilla: è lo sguardo che entrambi si scambiano in un istante, in cui tra i due c’è perfetta intesa, dove l’uno si riconosce nell’altro, senza vincitori né vinti. Il maestro è stato in qualche modo domato e forse è ciò che da tempo aspettava; l’allievo ha saputo tener testa al maestro, ma al prezzo della perdita della sua libertà all’inseguimento di una perfezione fine a stessa, dalla quale tutto e tutti sono stati tenuti al di fuori. Le vicende hanno come sfondo le scuole d’arte e i palcoscenici, già visti in film come “Saranno famosi” (1980), “Chorus line” (1985) o il più recente “Il cigno nero” (2010), con il mix di tensioni, aspirazioni e rivalità tra allievi e insegnanti, ma aggiunge la novità di uno strumento poco noto alla cinematografia e della musica jazz, non così diffusa tra i gusti musicali del grande pubblico. Ma soprattutto toglie l’idea del sogno da coronare dopo tanto lavoro e sudore e da condividere con gli altri: qui si ha un distacco emotivo dai personaggi, non si sta dalla parte di nessuno, perché nessuno vuole compiacere lo spettatore e nessuno (nemmeno Andrew) è simpatico. In ballo c’è solo la cieca volontà di arrivare primi, sfrondando questo percorso da ogni retorica. Notevole la performance attorale e fisica di Simmons, noto caratterista (“Spiderman”, “Juno”), che sfodera sguardi fulminanti ed espressioni glaciali nel ruolo di un personaggio sgradevole che gli è valso l’Oscar come miglior attore non protagonista.
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