WAR HORSE
-Steven Spielberg (2011)-
“Che ogni uomo sia per sé e per la patria motivo di orgoglio. Coraggio, abbiate coraggio e Siate Eroi!”. Così si conclude il discorso di incitamento alla battaglia di un ufficiale della fanteria a cavallo inglese, tanto idealista quanto impreparato ad una realtà che da dietro la collina attende insospettabile pronta a fare fuoco sulla carica di pensieri non sorretti da altrettanto forti baionette.
Questa frase è il motivo portante della storia di Joey, il cavallo miracoloso, purosangue, nato nelle campagne del Devon Shire, il cui destino fin dalle prime fasi viene legato a quello di Albert Narcott, giovane risoluto che se ne affida l’addestramento in vista di un compito impossibile anche per un cavallo da traino, ma non per Joey, salvare la fattoria di famiglia affidata alle soli gambe malferme del padre di Albert, Ted, burbero agricoltore, milite nella Seconda Guerra Boera il cui ricordo è tradotto con una ferita riportata in Sud Africa e mai più guarita né nel fisico né nell’animo, e due medaglie simbolo sì di onore ma anche di disgrazie, ricordi spaventosi e dolore che ancora lo tormentano rendendolo schiavo dell’alcool. Ted, sopraffatto dai debiti causati dalla distruzione del raccolto, si trova costretto a vendere il cavallo del figlio, ad un giovane Capitano Inglese che promette di averne cura al fronte con la promessa di riportarlo a casa al termine della Grande Guerra che appena scoppiata non risparmierà il Capitano di abbandonare il purosangue a sé stesso.
Inizia così il lungo percorso di Joey, un percorso fatto di separazioni, grandi sofferenze e sovrumane fatiche, ma anche di amicizia, coraggio e speranza.
Il maestro di Hollywood, Steven Spielberg, non ha di certo bisogno di commenti, attento alle reazioni emotive umane conosce profondamente i meccanismi della macchina da presa e li utilizza per far leva sui sentimenti degli spettatori in sala, colpendoli allo stomaco, facendoli uscire dalla sala chi con un sorriso, chi con una lacrima, ma pur sempre ricordando che non si devono dimenticare le cose semplici, come quando da bambini si guadavano i Disney dell’età dell’oro con tutti quegli animali, e che non è poi così male anche se ci viene insegnato ad essere insensibili, vedere sul grande schermo le immagini degli animali che sono lo “specchio buono” di noi umani, concetto ancor più rafforzato del contrasto con le immagini in cui la perizia del regista non cede nel dare una rappresentazione a tinte forti, sebbene edulcorata rispetto al suo precedente “Salvate il Soldato Ryan”, della guerra. Joey, è un cavallo fuori dal comune superiore alla media per forza e intelligenza, dalle espressioni quasi antropomorfe, resiste a tutto, disciplinato fino allo strappo finale metafora di ribellione in cui fugge, scappando dalle bombe e da tutto quel terrore proliferante che evapora dalle trincee , attraversando la cosiddetta “terra di nessuno” che divide lo schieramento Inglese da quello Tedesco, esprimendosi nella scena più forte e toccante del film dove la sua corsa che sembrava sfrenata viene anch’essa stroncata dal filo spinato. Un soldato Inglese alza la bandiera bianca, uno tedesco fa lo stesso e insieme collaborano per liberare il cavallo, sono compagni incuranti delle diverse divise che fino a qualche momento prima li rendevano anonimi volti in mezzo al fumo dei moschetti. Si scambiano battute per sdrammatizzare la criticità della situazione della guerra che sta logorando non solo gli eserciti ma anche le loro anime e riescono a sorridere, riappropriandosi della loro strappata umanità con la vicinanza ad un animale che non solo li rende uomini, ma uomini migliori, una scena da annali del cinema.
Il tutto accompagnato da una colonna sonora suggestiva come nei grandi colossal a cui non mancano riferimenti e citazioni, come nel caso di Via col Vento il capolavoro cinematografico di Victor Fleming tratto dal romanzo di Margaret Mitchell, come la scena della sconfitta della cavalleria Inglese su cui l’inquadratura si allarga e mostra una distesa di corpi via via sempre più vasta e sconfinata, proprio come nella Stazione di Atlanta dove Rossella fino a quel momento inconsapevole della portata della grandezza della guerra di Seccessione che mieteva vittime tra gli uomini del Sud, si ritrova a scoprire infinite distese di uomini che si estendevano a perdita d’occhio.
Ma la citazione più fruibile è sicuramente quella conclusiva, il sipario si chiude su un tramonto che fa eco alla fotografia magniloquente di Via col Vento durante il monologo di Rossella che giura davanti a Dio che “…non soffrirà mai più la fame”, questa volta però portandosi con sé un forse più un forse scontato lieto fine. Dunque una pellicola stucchevole magari, probabilmente anche banale, ma che male c’è ad ammettere che forse è proprio il momento di ammettere di aver bisogno di qualcosa di banale e di scontato, senza preoccuparsi troppo delle passioni?!
Un plauso speciale va agli addestratori che hanno fatto lavorare i dodici “attori equini” che hanno interpretato Joey, protagonista sì certo ma anche filo conduttore e legame tra storie di uomini diversi, (comparse nelle sua storia ma anche in quella del film se messi a confronto), che vengono toccati dal suo animo nobile ispirandoli, la cui dimostrazione è che, anche a noi, usciti dalla sala, solo a guardare la sua storia, viene subito voglia di sentirci più “eroi” in tutto il nostro belligerante quotidiano.
Stefania Ferraresi
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