Mai, una volta terminata la visione di un film, mi sono sentito così confuso come dopo la visione di “Vizio di forma” di Anderson, tratto dal romanzo di Pynchon.
Piccola premessa: il sottoscritto non ha letto il romanzo, ma in giro si dice che questo sia la sua opera più “semplice” da trasporre sul grande schermo. Insomma, ciò fa capire molte cose.
Tornando al film, terminata la visione non si ha ancora ben realizzato cosa si abbia appena visto. A dirla tutta, non ne sono venuto a capo nemmeno ora che scrivo, ben due giorni dopo la visione. L’unica cosa che ho capito è che, a differenza delle mie altre recensioni, questa la scriverò così: di getto. Senza pianificazioni. Forse sarà un po’ confusa, ma del resto rispecchierebbe la mia mente.
La trama in effetti è abbastanza semplice. Si tratta di un noir con un detective privato hippie chiamato dalla sua ex ad investigare sulla scomparsa del di lei amante. Il protagonista, un grandissimo Joaquin Phoenix, è perennemente sotto gli effetti di qualche droga e sembra portare avanti le indagini più per caso che per altro. Si imbatte in personaggi eccentrici che lo indirizzano sulla giusta strada e lui si limita a seguirla, un po’ rimbambito, per niente conscio di ciò che gli succede intorno. Così come lo spettatore.
Come ho già detto, alla fine del film nessuno sa cosa sia successo. Né lo spettatore, né i personaggi stessi. Si può dire perciò che l’effetto ricercato da Anderson è centrato in pieno. Più che altro, ci si chiede il senso di tutta l’operazione. Probabilmente mostrare lo straniamento di una persona, che qui si eleva a rappresentante di un fenomeno sociale, di fronte alla fine di un’epoca di speranze. Forse. Come ho già detto, non ho certezze.
Però il bello è che, nel bene o nel male, difficilmente dopo la visione si smette di pensare a “Vizio di forma”. Anzi, sono sicuro che alla mia prossima visione, rileggendo questa recensione mi rimangerò tutto, provando il bisogno di scriverne una seconda. E così sarà anche la terza, la quarta etc….