Pare che ai tempi del suo remake del “Lungo addio”, Robert Altman abbia confessato di essere stato interessato, man mano che il film prendeva forma, più alle atmosfere che alla trama. Guardando ancora più indietro, anche i classici dove Bogart interpretava il detective Marlowe avevano svolgimenti intricati, a volte addirittura improbabili e vi risaltava invece la caratterizzazione dei personaggi e dei luoghi.
Paul Thomas Anderson nel suo “Vizio di forma” , da un romanzo di Thomas Pynchon, pare non volersi discostare da questa linea. Il film si svolge nel 1970. Un detective privato, Doc Sportello, hippie, accanito consumatore di spinelli e altre sostanze, a suo modo provvisto di un candore alla maniera del Drugo nel grande Lebowski dei Coen, viene incaricato dalla sua ex compagna di occuparsi del caso di un immobiliarista, la cui moglie vorrebbe farlo passare per pazzo. Shasta, la ragazza, è innamorata di lui. Da questo incipit investigativo prende il via una girandola di situazioni bizzarre con personaggi altrettanto strambi. Anderson preme con spensieratezza il pedale dell’assurdo e del caricaturale, a volte esagerando: il duro poliziotto ghiotto di gelati e strapazzato dalla moglie, la surreale clinica odontoiatrica, o lo stesso Sportello, che pare avere il proprio ufficio dentro un ambulatorio medico. Il regista è abile a cogliere e riprodurre gli stereotipi del genere, ad esempio il look degli agenti federali, le dimore e i costumi di certi ricchi, le ambigue case di piacere: c’è solo da divertirsi a cogliere rimandi, echi, precedenti più o meno illustri. Il film risulta così una galleria di quadri molto godibile, ricca di riferimenti e citazioni, dove non manca lo sconfinamento nel grottesco e nel surreale.
Joaquin Phoenix dopo le straordinarie interpretazioni del fanatico adepto di “The Master” e del solitario scrivano di “Lei”, conferma qui il suo notevole talento trasformistico. Bravi anche tutti gli altri, fra i quali spicca un Josh Brolin che dà vita a un poliziotto dai tic esilaranti.