Unknown – senza identità: la recensione di Daisy83

Unknown – senza identità: la recensione di Daisy83

Martin Harris è un illustre professore universitario americano che conduce ricerche biotecnologiche ed è sposato con la bella e raffinata Liz. Invitato dal Professor Bressler a Berlino per un convegno, giunge in Germania con la moglie e, arrivato all’Hotel Adlon, si accorge di aver smarrito una valigetta. Torna indietro con un taxi per recuperarla e, inaspettatamente, ha un incidente in seguito al quale si sente confuso e disorientato. Lascia l’ospedale dov’è ricoverato, con la ferma intenzione di ritrovare la moglie (che dovrebbe essere preoccupata per lui), ma ben presto si rende conto che qualcuno ha preso il suo posto, assumendo la sua identità, con i colleghi e con la consorte. Il Professor Harris non ha documenti per testimoniare che è vittima di un complotto, nessuno sembra credergli e non sa più se è lui ad essere impazzito o se è al centro di una strana ed inspiegabile cospirazione. (“Sa cosa si prova quando si diventa pazzi? E’ una specie di guerra combattuta tra quello che ti dicono che sei e quello che tu sai di essere…”)
Unknown è un buon thriller basato su un romanzo di Didier Van Cauwelaert, dal titolo Fuori di me, ed è stato girato interamente a Berlino, location che entra tacitamente nella trama, come se fosse una silente e implacabile spettatrice del dramma della perdita d’identità del protagonista. La capitale tedesca è perennemente coperta da una coltre di neve, sempre avvolta in un’atmosfera plumbea che enfatizza la separazione di Harris dalla sua vita fittizia e apparentemente immaginaria. Si possono distinguere, nei campi lunghi e nelle riprese aeree, alcuni luoghi caratteristici di Berlino: la Colonna della Vittoria, la Porta di Brandeburgo, la Fernsehturm, la Friedrichstrasse, la metropolitana, la Sprea, l’Isola dei Musei e naturalmente l’Hotel Adlon.
Il regista Jaume Collet-Serra, reduce dallo scandalo provocato dal suo horror Orphan (che ha scatenato le polemiche delle associazioni Usa per l’infanzia), mette in piedi una gradevole spy-story, strutturando la trama con una rete di intrighi e ambiguità, in cui gli inseguimenti tendono a disorientare, con i repentini passaggi tra dettagli e campi medi, tra primi piani a campi totali. Il ritmo è concitato, tutto il montaggio è frenetico e le sequenze sono sature di improvvisi rumori, inizialmente off-screen, che poi irrompono violentemente nella scena.
I ricordi frammentari disorientano il Professor Harris, ripreso in primi piani che danno modo di notare il suo cambiamento da uomo comune a eroe d’azione e probabile personaggio alla Bourne. Le riprese urbane si alternano ai flashback del suo passato (reale o creato dalla sua follia?), inducendo lo spettatore a dubitare di tutti e di tutto, a pensare che nessuno è chi dice di essere.
Liam Neeson ha il volto spaesato e ambiguo di chi viene scaraventato in una dimensione straordinaria, sorprendendosi del suo stesso istinto di sopravvivenza. La sua fisicità e la fermezza nell’azione sono spesso in contrasto con il personaggio della splendida Diane Kruger, la tassista che era con lui al momento dell’incidente, che gli salva la vita e che lo aiuta in più di un’occasione, sempre spaventata e fragile, spesso alla ricerca di una protezione che lui non sa come darle. La loro storia non è mai scontata, non è sentimentale, ma spesso onesta e prudentemente accennata. Il personaggio di Gina ha molto di Emmanuelle Seigner in Frantic di Roman Polanski e, a dire il vero, molte ambientazioni e buona parte della storia rimandano allo spasmodico thriller con Harrison Ford. D’altro canto, la rivale January Jones, ispirata molto da Grace Kelly (che tuttavia resta inarrivabile per la dolce biondina della serie Mad Men), sa essere professionale ed intraprendente, perfetta in ogni contesto. Inoltre, non sono da meno gli altri due grandi interpreti, tanto complementari quanto contrastanti: da un lato il magnifico Bruno Ganz, coraggioso e brillante ex agente della Stasi (principale organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania Est), e dall’altro Frank Langella, losco e ambiguo collega di Harris che richiama alla memoria mimica ed interpretazione di Max Von Sydow in I tre giorni del Condor.
Impressionando gli spettatori con allusioni al cinema di Hitchcock (Intrigo internazionale) e di Greengrass (Green Zone, The Bourne Supremacy), tra fotografie, passaporti, identità frammentate e inesistenti, Collet-Serra intrattiene con destrezza, sa dosare tempi e spazi con inquadrature serrate sui volti e inseguimenti ad alta tensione.
Il tema della perdita della memoria, e di conseguenza dell’identità, è complesso e sezionato in ogni suo aspetto da ogni tipo di thriller psicologico e dalla cinematografia di spionaggio in generale, ma difficilmente riuscirà ad esaurirsi, se rinnovato dall’esperienza di registi che, prima di creare una pellicola frutto della loro personale abilità, sanno dare il giusto riconoscimento ai loro celebri predecessori, imparando da loro a suggestionare lo spettatore con quel difficile equilibrio tra suspense e intrecci ben congegnati, che esortano alla deduzione logica dello sviluppo degli eventi.

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