Acclamato al festival di Cannes, completamente snobbato dal pubblico italiano. A dire le contraddizioni, talvolta, si riconosce la voce del pregiudizio volto all’incompetenza.
Eppure il film di Audiard non si presenta male, a prima vista ci sono gli elementi per il successo. Una storia d’amore con eco melò, una disgrazia molto “semplice” nella sua tragicità, comuni problemi e ambientazione popolare. Sulla carta. Perché, in effetti, nella realtà Audiard mischia le carte, confonde le acque e regala un’altra gemma dopo quella che era stata “Il Profeta”.
De rouille et d’os (titolo origiale) è la storia di lui, Alì, spiantato ex pugile con un figlio a carico che ora si arrangia come può. Di lei, Stéphanie, addestratrice di orche col sorriso stampato in faccia che ama farsi guardare, e sentirsi attraente. Ma è anche la storia della vita, che tutto e tutti mette alla prova.
Una Clotillard semplicemente magnifica, in un ruolo di assoluta difficoltà che la sua bravura e gli effetti speciali rendono perfetto. E poco importa se invece il personaggio maschile non è all’altezza, l’empatia con la storia scatta lo stesso. Non certo la stessa che scatta con Alì, sempre troppo lontano dallo spettatore, sempre sfuggente al sentimento, sempre inadatto al rapporto. E Audiard regala una splendida poesia contemporanea, affascinante nei suoi chiaroscuri e nei silenzi dei personaggi.
Una sottile pellicola opaca appiccicata sull’obiettivo che rende il tutto piuttosto “degradato”, come in realtà è la vita di periferia, quella che conducono Alì e la sorella che lo ospita. Gli unici tratti di colore (anche musicale) vengono regalati durante lo spettacolo al parco acquatico, e non è un caso. Quasi a sottolineare che la felicità è un momento, la realtà è altra cosa.
Una regia viva, cruda e crudele a tratti, ma delicata quanto efferatamente impietosa in altri frangenti. E’ questo il punto di forza: la capacità di Audiard di provare dolore, ma non pietà, né biasimo. Insieme alla capacità di sapere quando staccare dalla scena, e quando staccare la musica, per rendere tutto più avvolgente, più doloroso, più reale. A tratti il regista sembra sorvolare completamente i problemi e le discussioni, creando un effetto di “sospeso” che inizialmente può dare sconcerto, ma una volta entrati nel meccanismo è quasi rassicurante nella sua incompletezza. Una pellicola fredda e tagliente, capace di essere, per contraddizione, anche avvolgente e compassionevole nei suoi silenzi e nei suoi drammi. Come detto, una piccola gemma da festival, che lascerà molti scontenti, ma lascerà anche qualcuno profondamente grato. Io appartengo alla seconda categoria.