Parafrasando la tagline del film (“Fear the man with nothing left to lose”, “Temi l’uomo che non ha più nulla da perdere”), di Michôd andrebbe detto: “temi il regista che ha poco da dire”, colui con una poetica già riassumibile nel titolo-slogan del suo debutto “Animal Kingdom” (2010). E se non bastasse il nichilismo distopico, ecco pure lo stile asfitticamente e asfissiantemente minimalista a differenza dei paragoni coi “Mad Max” e i western crepuscolari. “The Rover” resetta narrazione e personaggi, dissecca storia, luoghi e umanità invocando più ch’evocando l’allegoria della nostra condizione primitiva e primordiale, dolente e demente poiché squarciata nel corpo e nello spirito (cf. gl’individui crocifissi lungo la strada), alla mercé d’istinti ferini, feroci, crudeli, brutali. “Poco originale, esasperatamente lento, inframmezzato da improvvise scene di violenza, recitato molto bene”. Chi s’accontenta di poco godrà assai, tipo Tarantino che definisce il collega australiano come il “più intransigente della sua generazione” in virtù d’una sua “affascinante visionarietà”. C’è del vero, ma è altrettanto vero che questo lungometraggio, un po’ saggio intellettuale e un po’ esperimento audiovisivo, eccede nell’atmosfera irrespirabile ai suoi protagonisti quanto agli spettatori. Poi c’è chi si lamenta per la scarsa distribuzione.
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