The Midnight Sky, la recensione del dramma fantascientifico di George Clooney

Clooney, giunto alla sua settima regia, tenta la carta di una space opera apocalittica ma anche un po' intimista

The Midnight Sky, la recensione del dramma fantascientifico di George Clooney

Clooney, giunto alla sua settima regia, tenta la carta di una space opera apocalittica ma anche un po' intimista

The Midnight Sky
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PANORAMICA
Regia (2)
Sceneggiatura (1.5)
Interpretazioni (1.5)
Fotografia (2.5)
Montaggio (2)
Colonna sonora (1.5)

Augustine, il protagonista di The Midnight Sky, il nuovo film diretto e interpretato da George Clooney e uscito su Netflix, è uno scienziato che ha dedicato la sua vita a rintracciare nuovi spazi abitabili nell’Universo. Decide, tuttavia, di rimanere sulla Terra dopo che un disastro globale ha costretto gli umani a disabitare il pianeta, nel tentativo di convincere un gruppo di astronauti a non farvi mai più ritorno. 

Tratto dal romanzo La distanza tra le stelle di Lily Brooks-Dalton, The Midnight Sky è la settima regia di Clooney, divo che negli anni si è ritagliato un percorso dietro la macchina da presa piuttosto eterogeneo, con qualche picco (il giustamente celebrato Good Night, and Good Luck, ma anche Le idi di marzo, cuore di tenebra della politica liberal terribilmente sottovalutato) e rovinose cadute, come il leggiadro ma insopportabile Monuments Men. In mezzo tante opere anche apprezzabili ma derivative, come Suburbicon (che era coeniano dalla testa ai piedi, firma della sceneggiatura compresa, ma aveva il difetto di non essere un film dei Coen) o la dimenticata e piacevolissima screwball comedy In amore niente regole. 

The Midnight Sky appartiene purtroppo al novero delle opere meno riuscite del Clooney regista, che come cineasta appare ancora piuttosto incerto e oscillante sulle direzioni da prendere. L’eclettismo, se messo a frutto, può essere indubbiamente un pregio (e perfino uno stampino da regista da studio system vecchia scuola), ma sicuramente non lo è nel modo in cui si articola all’interno di questo dramma di fantascienza, che coltiva un po’ a vanvera uno slancio – si fa per dire – cupo e dimesso (a tratti, in verità, quasi dismesso) alla space opera. Clooney ha recitato in Solaris di Soderbergh, tra i remake più nulli della storia del cinema, e l’approccio qui purtroppo non è meno posticcio e pretenzioso, anche se più composto e raccolto. 

L’apocalisse secondo Clooney è, per larghi tratti, un’implosione da due camere e cucina, quasi una fine del mondo già consumata e dunque a misura di isolamento e di lockdown, col senno di poi. Del luminare Augustine Lofthouse, malato terminale con barbone alla David Letterman, scopriamo però pochissimo e continueremo a saperne molto poco, se non attraverso qualche studiato e strumentale colpo di scena. Questa cappa di indeterminatezza, che investe tanto la sua parabola letargica quanto gli obiettivi della missione Aether, mirata alla colonizzazione di una luna di Giove, mal si sposa con una sceneggiatura altrettanto fumosa, del Mark L. Smith di The Revenant, che fa al film un pessimo servizio.

The Midnight Sky pare evitare scrupolosamente di strutturare un racconto degno di nota, ma preferisce alludere, suggerire, navigare a vista, a margine di nebulose e nodi di senso quasi sempre impalpabili. Il limbo che propone non restituisce la sospensione dell’uomo nello spazio in modo umanista e virtuosistico, come il Gravity di Cuarón che Clooney ha interpretato e che qui scimmiotta spudoratamente in certi ghirigori avvolgenti nelle evoluzioni dei corpi sospesi e nella scelta del punto di vista della macchina da presa. È vittima, semmai, del medesimo scacco che vorrebbe mettere in scena: quello del collasso della speranza sul nostro pianeta, che si riflette anche nel sentimento di alterità rispetto alla vita terrestre che The Midnight Sky dovrebbe suggerire e al quale invece non crediamo praticamente mai.

Rispetto a Interstellar e Ad Astra, modelli di fantascienza cinematografica recente ai quali il film strizza addirittura l’occhio senza grande originalità, c’è un tenore grave, un passo calmo e quasi funebre. Le pretese autoriali non paiono però legittimate e avere chissà cosa da dire, scantonando nel sussurro para-filosofico in tono minore e nei momenti peggiori perfino stitico, nella copia carbone depotenziata di ben altre incursioni nel genere.

La giusta sintonizzazione comunicativa tra i personaggi e i registri della storia (tutti scollati, tra l’altro) arriva poi alla temperatura corretta, alla giusta dose di vicinanza e intimità, probabilmente solo negli ultimissimi minuti. Un po’ poco e un po’ tardi, anche se l’impegno di Clooney per il progetto non è certo mancato (l’attore è dimagrito tantissimo in poco tempo, tanto da venire ricoverato in ospedale per una pancreatite). Di spaziale, tuttavia, ben poco da segnalare.

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