La critica inneggia: “Al capolavoro”! Giornali e blogs pubblicizzano: “Finalmente al cinema, ecco tutte le sale in cui potete trovare la grande opera di Anderson”.
Leone d’argento alla regia a Venezia.
Forse ho sbagliato film.
Eppure i titoli di coda parlavano chiaro: “The Master”, dicevano. E, non trattandosi di un multisala, era l’unico film in programmazione in quel cinema.
Da tempo non mi trovavo di fronte ad un simile flagello.
Il quadro di fondo è quello di un branco (gruppo è un termine troppo elevato) di esaltati riuniti intorno ad una figura cardine carismatica e convinta, il capo della setta, che prende il nome di “Causa”, Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman). Al suo fianco, la moglie (Amy Adams) che, con la sua fedeltà al marito e al suo credo, funge da ulteriore collante tra i devoti.
Questo gruppo (via, concediamoglielo, se non altro per evitare brutte ripetizioni) di disperati, un bel giorno, raccatta per strada un ancor più disperato di loro, Freddie (Joaquin Phoenix) il protagonista di questa storia.
Storia… Se poi di storia si può parlare, dato che manca un vero e proprio filo conduttore.
Sulla questione dell’ispirazione a Scientology o ad altre note sette e tutto ciò che gli è relativo non mi esprimo, per il semplice fatto che non ne possiedo le competenze.
Niente da dire per ciò che riguarda la recitazione, gli attori sono tutti bravissimi, peccato solo che questo non basti.
Il film è talmente noioso che, dopo non più di 40 minuti (sono generosa), non riesci più neanche a compiacerti della loro capacità interpretativa, unico punto saldo della pellicola.
Terminato il primo tempo, la tentazione di prendere la via della fuga è stata forte ma, da persona fiduciosa quale sono, ho sperato in un miglioramento. In fondo i sedili erano comodi, avevo spazio per le gambe e c’era un calduccio confortante. Niente. Ad un certo punto mi sono scoperta a contare i quadrati del soffitto.
La vicenda ruota intorno allo sconvolgimento interiore del protagonista. Tornato dalla guerra,sempre ubriaco, volgare, non piace a nessuno, indossa una maschera di indifferenza nei confronti del mondo che lascia cadere solo quando sfoghi violenti di rabbia prendono il sopravvento.
Cinema, teatro e letteratura vivono di personaggi tormentati, ma tutti hanno un qualcosa che ti lega a loro, che rende le loro vicissitudini interessanti ai tuoi occhi, che ti rende partecipe.
Questo è un tormentato qualunque che ispira solo indifferenza.
La colpa non è dell’attore, che ribadisco essere assolutamente grande. Vi è proprio mancanza di spessore nel personaggio che gli è stato affidato.
A questa “linea narrativa” si aggiunge il complesso rapporto con Lancaster, il “maestro”, che decide di addestrarlo come si fa come una creatura selvatica. Solo un’altra strada senza uscita.
Forse sono io che non capisco il genio racchiuso in quest’opera. Tuttavia accanto a me mia zia si è fatta un bel pisolino. Qualcuno ha abbbandonato la sala. Altri sono usciti scuotendo la testa e sussurrando “terribile”.
Mi chiedo: a noi poveri comuni mortali che non possediamo lo status di sommo critico cinematografico, cosa è sfuggito?