A lungo attesa, da molti temuta, la serie The Last of Us è pronta a fare il suo esordio dal 16 gennaio 2023 in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW, in contemporanea assoluta con HBO. Di fronte a sé ha una missione complicata, spesso fallita in questo tipo di operazioni: accontentare chi conosce già la storia di Joel ed Ellie, ma allo stesso tempo ampliarne gli orizzonti sia di pubblico che drammaturgici.
Per farlo, Neil Druckmann (creatore del videogioco) e Craig Mazin (showrunner di Chernobyl) hanno dovuto trovare un delicato equilibrio tra rispettoso citazionismo e necessaria innovazione, aspetti che si intrecciano in un più ampio dibattito sullo stato dell’arte videoludica in relazione alle sue componenti prettamente cinematografiche. La domanda alla base, che si sono posti anche molti amanti di The Last of Us, è semplice: aveva davvero senso adattare questa storia per il piccolo schermo?
HBO ha risposto partendo da un’assoluta fedeltà narrativa al racconto: nel 2003 (dieci anni prima rispetto al videogame) la vita di una giovane ragazza dei sobborghi di Austin e del resto del mondo viene stravolta da una pandemia. Nessun virus, nessun batterio: a causare l’Apocalisse è il Cordyceps, un fungo mutato tanto da poter infettare gli esseri umani e renderli creature aggressive e voraci, simil zombie. La giovane, Sarah, non sopravvive al primo caos che travolge la cittadina e muore tra le braccia del padre, Joel (Pedro Pascal).
The Last of Us si sposta poi vent’anni nel futuro, in una Terra devastata dal Cordyceps e dalla violenza degli uomini rimasti: le zone di quarantena sono sotto autorità militare e i sopravvissuti, come Joel, cercano di tirare avanti come possono. Il secondo punto di svolta nella sua vita arriva quando incontra Ellie (Bella Ramsey), una ragazza apparentemente immune al fungo e che la milizia ribelle delle Luci sta cercando di portare fuori dalla città per poter dare una concreta speranza al mondo. I due si imbarcano così in un viaggio destinato a cambiarli molto più di quanto possano immaginarsi.
Fine del mondo, pandemie, zombie e “cosa faremmo se” sono temi che hanno ispirato vari campi dell’arte, della letteratura e del mondo videoludico. The Last of Us, uscito nel 2013 per PlayStation, si è inserito perfettamente nel solco tracciato in maniera indelebile da Cormac McCarthy in The Road, da Robert Kirkman nel fumetto The Walking Dead e ancor prima da Richard Matheson in Io sono Leggenda del 1954 – tutti progetti che curiosamente hanno trovato spazio al cinema o in tv nel giro di appena 3 anni.
La formula alla base è la stessa: civiltà interrotte, violenza, abbandono di ogni umanità e un tenue filo a cercare di restituire un senso di catartica speranza. Anche la storia di Joel ed Ellie, ha seguito lo stesso canovaccio, ritagliandosi tuttavia un grosso spazio di unicità perché in grado di dissolvere ancor di più i confini tra bene e male, tra sopravvivenza e malvagità, tra egoismo ed eroismo. Pur vissuto tramite gli occhi di Joel, il viaggio di redenzione di un padre favorito da una “nuova” figlia ritrovata (e con lei un senso di appartenenza, di responsabilità e di amore) non è che una favola nera in cui le premesse di cinismo ed opportunismo vengono pienamente rispettate e mantenute. Un aspetto, questo, reso emotivamente ancor più potente nel secondo capitolo grazie al rapporto tra Ellie ed Abby, lasciato fuori dai primi 9 episodi della serie.
Questo è il cuore della storia e ciò che HBO, Neil Druckmann e Craig Mazin hanno deciso di adattare al piccolo schermo. La serie The Last of Us riparte dagli stessi elementi, personaggi, situazioni e dialoghi, talvolta citati alla lettera per il semplice motivo che già funzionavano bene e non c’era quindi bisogno di metterci mano. Quello che hanno fatto è stato però diluire i tempi del racconto, sondare psicologie e intenzioni, dare una profondità diversa a certi personaggi (come Bill/Nick Offerman), tralasciando invece aspetti più adatti ad un diverso tipo di medium e di esperienza.
Infetti, clicker e altre creature del Cordyceps ci sono, ma non sono più al centro dell’azione, dominata invece dal racconto umano troppo umano del mondo post-apocalittico di The Last of Us. La grande differenza è dettata dal cambio di mezzo ed è anche l’aspetto al cui confronto la serie può risultare deficitaria: per chi ha giocato la storia in prima persona, toccando “con mano” l’avventura e le sue conseguenze, senza cioè il vissuto emotivo, la fatica del percorso e del viaggio condiviso, questa non può che essere una versione de-potenziata dal punto di vista esperienziale.
Ciò non toglie però in alcun modo valore all’operazione o necessità a questo adattamento: racconta le stesse cose sì, ma con un taglio e una modalità diversa, meno attiva e più contemplativa, per un pubblico più vasto e che potrà perdersi nell’interpretazione malinconica di Joel, nelle spensierate deviazioni di Ellie e nelle musiche di Gustavo Santaolalla (già compositore della score del videogioco).
Prendendo in prestito termini e analisi dalla psicologia, The Last of Us è il trionfo della teoria della Gestalt applicata anche al mondo videoludico e cinematografico: il racconto di Joel ed Ellie viene percepito in maniera diversa in base alle esperienze passate, risulta come un tutto unico diverso però dalla somma delle sue singole e talvolta identiche parti. Videogioco, serie tv, fumetto o chissà cos’altro: pur riprodotta con gli stessi elementi, la storia di The Last of Us resta qualcosa di unico. E qualsiasi forma assuma, avrà sempre senso raccontarla.
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