Gary Hart, candidato alle elezioni presidenziali americane per il Partito Democratico, nel 1987 fu costretto a ritirarsi dalla corsa alla Casa Bianca a causa di uno scandalo sessuale che portò a galla, con tanto di foto inequivocabili, la sua relazione extraconiugale con una donna di nome Donna Rice. Hart si ritrovò a uscire dai giochi da favorito indiscusso aprendo la strada, di fatto, alla vittoria di George Bush padre, che condurrà gli USA nella Guerra del Golfo e in una nuova fase storica.
È la storia vera al centro di The Front Runner – Il vizio del potere, il nuovo film del regista di Juno e Tra le nuvole Jason Reitman che ha aperto il 36° Torino Film Festival. Un’operazione nella quale si respira a pieni polmoni il clima della tradizione del cinema civile americano d’ispirazione liberal, nella forma in cui viene spesso riletto in chiave contemporanea (da Clooney in giù): brio nella scrittura, con venature da commedia beffarda; ritmo incalzante; una sceneggiatura a orologeria piena di minuzie folgoranti, battute incisive e rivelatrici; personaggi di contorno solo in apparenza minuscoli, che arricchiscono un affresco di grande respiro proprio perché attentissimo ai minimi particolari.
Il film di Reitman, al di là della piacevolezza dell ricostruzione e della solidità della sua scrittura, ha il merito di cogliere (e perfino di immortalare) un momento di transizione nel dibattito mediatico: la fase in cui il privato di un uomo di Stato smise di essere tale e divenne immediatamente pubblico, perfino, a tutti gli effetti, politico. Gary Hart, Senatore del Colorado dal 1975 al 1987, era un uomo coi capelli giusti (proprio come l’attuale inquilino della Casa Bianca, a suo modo), attraente, in grado di dominare i media con mano ferma e sicura. Aveva tutte le carte in regola, a cominciare da un carisma e un idealismo di matrice kennediana.
Eppure, incredibilmente, bastò un appostamento di un manipolo di giornalisti del Miami Herald sotto il suo portone per minare la spavalderia con cui Hart, sulle pagine del Washington Post, invitava tutti a seguirlo giorno e notte non avendo niente da nascondere (probabilmente molto meno delle amanti di JFK, ma abbastanza per un’America precedente a Bill Clinton e Monica Lewinsky). Un atto di spavalderia non ancora lecito, a quei tempi, ben prima che la dittatura delle fake news arrivasse a scardinare ogni paletto tra vero e falso, lecito ed illecito, spalancando le porte dello Studio Ovale addirittura a un milionario da avanspettacolo disposto a pagare delle pornostar affinché tacciano.
Il grado di attualità del film, limpido e schematico, irreprensibile sia nella forma che negli intenti dichiarati, è dunque altissimo: si guarda al recente passato per gettare una luce rivelatrice su un presente imbarbarito, senza giudicare ma con il sentimento quieto e pacato, sornione e riflessivo di tanto cinema d’impegno a stelle e strisce. Tanto che quando in scena irrompono le ombre – quelle del legame perverso tra politica e entertainment da tabloid, tra polverizzazione della privacy e appagamento da Grande Fratello orwelliano travestito da giornalismo d’impegno – fanno un po’ meno paura. Proprio perché ormai largamente accettate da tutti, condivise, anche se di rado interrogate e chiamate per nome come in questo caso.
The Front Runner non a caso è un film corale, che se ha al suo interno una piccola dose di disperazione la nasconde sotto il brulichio di folle martellanti, di persone che si rincorrono e si sovrappongono come un in un film di Robert Altman: giornalisti, cronisti, spin doctor, mogli e amanti, personalità illuminate o arraffone, luci della ribalta o semplici comparse. Da qui in poi, in coda all’era Reagan, l’alto e il basso saranno destinati e condannati a confondersi in maniera sempre più selvaggia e indiscriminata, azzerando ogni senso di colpa e peccato originale e rendendo i confini tra le persone e la loro intimità – ma anche quelli tra i generi, i formati, i racconti della realtà – labili e sfumati come non mai.
Col senno di poi, la certezza è una sola: se Gary Hart l’avesse candidamente confessato, quel tradimento, anziché tentare di rimanere aggrappato, fermamente ma goffamente, alla difesa della propria sfera intima, con ogni probabilità sarebbe diventato presidente. Donald Trump, trent’anni dopo, insegna.
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