Anderson ambienta il suo 10° film a “Ennui-sur-Blasé” (“noia per sfinimento”, “sull’indifferenza”, “sull’apatia”), gli spettatotori son’avvisati fin dal principio. La sua maniacale “stilosità” giunge al limite dell’asfissia narrativa (d’altronde cos’altro sarebbe la “politique des auteurs” dei Cahiers? Il retaggio della “Nouvelle Vague” è questo). Emulo del greenawayano “storytelling superfluo”, le sue “strabiliant’invenzioni degradano in convenzioni” (Anna Maria Pasetti), un intellettualismo elitario (“The New Yorker”) intenzionato al sacrificio emotivo dell’aver a cuore i personaggi, gl’umani, chicchessia. Condito da uno humor balordo, “Ennui-sur-Blasé” sin’a morire: è dalla morte del direttore del supplemento letterario ch’il lungometraggio prend’avvio ed è dalla stesura del suo epitaffio che si congeda, l’all-star cast sfila, letteralmente o meno, com’un corteo funebre davanti alla salma d’un giornalismo per il giornalismo e d’un cinema per il cinema, autocelebrativo, autocommemorativo, autotestamentario, autocerimonialmente luttuoso. Ringraziamenti finali a Baumbach, al compaesano Linklater (Houston, Texas), a de Palma, Joel Coen, Spielberg.
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