The fighter: la recensione di Mauro Lanari

The fighter: la recensione di Mauro Lanari

(In collaborazione con Orietta Anibaldi). Restando in zona Aronofsky, stavolta produttore, “The Fighter” si presenta com’un film dovutamente compensatorio nei confronti di “The Wrestler”. Tanto nel biopic camuffato su Rourke s’assisteva a un’apologia dell’amore amicale auto-eterodistruttivo, un inno s/m alla philìa lesionistica, quanto qui, al contrario, c’è un biopic vero su una storia che, nella sua piccola specifica e forse insignificante microglobalità, mostra un percorso di redenzione, il cercare in ogni ente ed evento qualcosa di salvabile e salvifico. Merce rara, pressoché unica. Quindi preziosa: un gioiellino. Forzato trovarvi tracce di filofamiliarismo; tutti contro tutti, ma alla fine riconciliati per un aspetto seppur minimamente positivo e per giunta estraneo al loro ruolo socio-parentale: madre, padre, fratello, sette sorelle, sparring partner, vecchi e nuovi manager, la sua ragazza, la seconda famiglia, chi più ne ha più ne metta. Insomma l’intera comunità di Lowell. Si dovrebbe parlare, semmai, d’ecumenismo. Il film è centrato sul fondamentale ripudio ontologico di sostantivare gl’aggettivi; le figure relazionali sono “persone” proprio nel senso di “maschere” e dunque ben altro rispetto ai soggetti (paterni, materni, fraterni, sororali, ecc.). Su questo tipo d’errore si sono basati Agostino e poi il Cristianesimo nel formulare il concetto di Trinità: la relazionalità dei rapporti interpersonali assurta a Identità. Invece ogni comprimario di Ward/Wahlberg finisce modificato, cambiato, migliorato: non n’esce riconoscibile nessuno. Si tratta d’una redenzione che nello status quo prova a discernere per l’appunto identità e differenza, struttura essenziale e contingenza accidentale, soggettivo e aggettivo, così da evitare un’indiscriminata demonizzazione che getterebbe via il bimbo assieme all’acqua sporca. Il protagonista mostra come il cuore dei problemi consista nel tentare di giungerne al cuore, e propone la strategia esistenziale dell’incassatore eccelso, che resiste confidando nell’arrivo dell’eventuale attimo vincente, l’occasione propizia, quel “kairόs” ch’è opportunità non opportunistica bensì momento di e della Grazia. Resiste alle tentazioni: “Certe volte, se vuoi vincere devi essere quello che non sei”. Viceversa è proprio con la fedeltà a se stesso che Ward sa far esprimere il massimo da lui e da chiunque lo circondi. Riguardo alla boxe, anzi al combattente/fighter, il contesto pugilistico va preso come simbolo: niente retorica alla “Rocky”, “Toro Scatenato”, “Cinderella Man”, MDB d’Eastwood. In una situazione cosmica già data di panbelligeranza, il protagonista cerca soltanto una qualche plausibile forma di pacificazione, e non a furia di cazzòtti ma nonostante i cazzòtti, reali e metaforici. Notevole anche il prosieguo, accennato per iscritto al termine del film, circa gl’incontri di box successivi al conseguimento del titolo. Chi l’andasse a verificare, per esempio su Wp, potrebbe prendere spunto dalla costanza dell’indole di Ward non solo per farci un altro film, che infatti doveva essere già in cantiere, ma per cominciare a pensare in maniera finalmente diversa al gioco/sport, alle sue regole e modalità d’espletazione.

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