(In collaborazione con Orietta Anibaldi). Restando in zona Aronofsky, stavolta produttore, “The Fighter” si presenta com’un film dovutamente compensatorio nei confronti di “The Wrestler”. Tanto nel biopic camuffato su Rourke s’assisteva a un’apologia dell’amore amicale auto-eterodistruttivo, un inno s/m alla philìa lesionistica, quanto qui, al contrario, c’è un biopic vero su una storia che, nella sua piccola specifica e forse insignificante microglobalità, mostra un percorso di redenzione, il cercare in ogni ente ed evento qualcosa di salvabile e salvifico. Merce rara, pressoché unica. Quindi preziosa: un gioiellino. Forzato trovarvi tracce di filofamiliarismo; tutti contro tutti, ma alla fine riconciliati per un aspetto seppur minimamente positivo e per giunta estraneo al loro ruolo socio-parentale: madre, padre, fratello, sette sorelle, sparring partner, vecchi e nuovi manager, la sua ragazza, la seconda famiglia, chi più ne ha più ne metta. Insomma l’intera comunità di Lowell. Si dovrebbe parlare, semmai, d’ecumenismo. Il film è centrato sul fondamentale ripudio ontologico di sostantivare gl’aggettivi; le figure relazionali sono “persone” proprio nel senso di “maschere” e dunque ben altro rispetto ai soggetti (paterni, materni, fraterni, sororali, ecc.). Su questo tipo d’errore si sono basati Agostino e poi il Cristianesimo nel formulare il concetto di Trinità: la relazionalità dei rapporti interpersonali assurta a Identità. Invece ogni comprimario di Ward/Wahlberg finisce modificato, cambiato, migliorato: non n’esce riconoscibile nessuno. Si tratta d’una redenzione che nello status quo prova a discernere per l’appunto identità e differenza, struttura essenziale e contingenza accidentale, soggettivo e aggettivo, così da evitare un’indiscriminata demonizzazione che getterebbe via il bimbo assieme all’acqua sporca. Il protagonista mostra come il cuore dei problemi consista nel tentare di giungerne al cuore, e propone la strategia esistenziale dell’incassatore eccelso, che resiste confidando nell’arrivo dell’eventuale attimo vincente, l’occasione propizia, quel “kairόs” ch’è opportunità non opportunistica bensì momento di e della Grazia. Resiste alle tentazioni: “Certe volte, se vuoi vincere devi essere quello che non sei”. Viceversa è proprio con la fedeltà a se stesso che Ward sa far esprimere il massimo da lui e da chiunque lo circondi. Riguardo alla boxe, anzi al combattente/fighter, il contesto pugilistico va preso come simbolo: niente retorica alla “Rocky”, “Toro Scatenato”, “Cinderella Man”, MDB d’Eastwood. In una situazione cosmica già data di panbelligeranza, il protagonista cerca soltanto una qualche plausibile forma di pacificazione, e non a furia di cazzòtti ma nonostante i cazzòtti, reali e metaforici. Notevole anche il prosieguo, accennato per iscritto al termine del film, circa gl’incontri di box successivi al conseguimento del titolo. Chi l’andasse a verificare, per esempio su Wp, potrebbe prendere spunto dalla costanza dell’indole di Ward non solo per farci un altro film, che infatti doveva essere già in cantiere, ma per cominciare a pensare in maniera finalmente diversa al gioco/sport, alle sue regole e modalità d’espletazione.
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