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La vendita del conglomerato mediatico Waystar Royco al visionario tecnologico Lukas Matsson si avvicina sempre di più. La prospettiva di questa cessione sismica provoca angoscia esistenziale e divisione familiare tra i Roy, che prevedono come saranno le loro vite una volta completato l’affare. Ne consegue una lotta per il potere, mentre la famiglia fa i conti con un futuro in cui il proprio peso culturale e politico è fortemente ridotto.
La quarta stagione di Succession, l’acclamata serie HBO creata da Jesse Armstrong e con protagonisti Brian Cox, Jeremy Strong e Sarah Snook, porta definitivamente lo show nel reame della grande serialità da manuale e irrinunciabile, quel ristretto novero di prodotti che va essenzialmente, per intenderci, da Breaking Bad a I Soprano passando per Mad Men.
Intorno al patriarca Logan Roy mefistofelicamente incarnato da Cox si consumano ancora una volta le sorti di una famiglia cupa e chiaroscurale, dilaniata da languori osceni e vergognosi, e inquadrata come in un film di Lars von Trier o del Dogma 95 corroborato dalla vena satirica dell’autore de La grande scommessa e Don’t Look Up.
Il racconto del potere, di fatto un aureo punto d’incontro tra i dettami della serialità del presente e i sempiterni archetipi shakespeariani, si propone ai nostri occhi non più come recita della storia, ma come manomissione di una farsa in costante rinegoziazione con il nostro immaginario traviato dal familismo cinematografico, da Il padrino di Coppola a Parasite di Bong Joon-ho.
A condire il tutto una capacità singolare e deflagrante di lavorare, in un costante rimbalzo di tensione e amoralità apocalittica e lancinante, tra le diverse e più inaspettate pieghe che connettono, in un miracolo di crudeltà raffinatissima messa in scena, scrittura dei dialoghi e adesione fisica e mentale degli attori alla loro recitazione non meno che maiuscola. Un elemento, quest’ultimo, che qui approda anche, nel caso macroscopico di un eccellente Matthew MacFadyen, al lockdown psicologico totale da smarrimento luttuoso della figura del padre padrone nonché protettore. Dirà infatti il personaggio della temibile sorella “roscia” interpretata da Sarah Snook, Siobhan “Shiv” Roy: «Logan Roy ha creato una grande famiglia americana. Il Board ha perso un titano americano, e noi un padre».
E la terza puntata (vero e proprio episodio shock, oltre che puntata spartiacque), in questo senso, è a onor del vero un apice esplosivo e dinamitardo, all’insegna della disgregazione fulminea e della ricomposizione forzata delle fratture di un nucleo familiare, destinata a rimanere impressa a ferro a fuoco e a lungo termine nella memoria dei fortunatissimi spettatori di questa meraviglia, nella quale anche la regia del solito e solido Mark Mylod fa il definitivo, tanto atteso quanto ineluttabile, salto di qualità.
Da vedere in coppia, per il comune, strettamente accomunabile trattamento dello scontro generazionale e della scissione padre/figli, col magistrale film iraniano, incomprensibilmente snobbato dal palmarès del Festival di Cannes 2023, Leila e i suoi fratelli di Saeed Roustayi: un’opera ambientata nell’Iran schiacciato dalla crisi economica, con protagonisti tanti fratelli a cui non ne va bene mezza, una sorella instancabile ed esausta che fa da faro a tutti (la magnifica Taraneh Alidoosti, arrestata qualche tempo fa per il sostegno dato alle proteste iraniane) e un padre carogna, in un incrocio tra i ritratti d’avidità delle tragedie shakespeariane e le meschinità ad alto tasso di empatia e compassione della commedia all’italiana.
Un degno parente dell’indimenticabile, totale, feroce, famelico, per forza di cose definitivo Logan Roy di Brian Cox in Succession, un personaggio destinato a rimanere indelebilmente impresso nei compendi della drammaturgia occidentale tout court, eleggibile a pieno titolo a totem dell’inconscio collettivo dell’Occidente bianco contemporaneo. Che crudeltà, che ferocia, che bravura. Applausi.
Foto: Gary Sanchez Productions, Project Zeus
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