Non ho capito bene dove la regista volesse andare a parare. La focalizzazione è s’un singolo e specifico episodio della storia sociopolitica statunitense, allorché il presidente Johnson si schierò a favore del Voting Right Act che garantiva l’effettivo diritto civile antisegregazionista d’accesso al voto per i colored (i quali nel film, filologicamente, s’autodefiniscono “negri”). L’evento della triplice marcia da Selma a Montgomery, capitale dell’Alabama, risultò decisivo. Dunque, in apparenza, una pellicola corale, e invece la DuVernay propone una sequela interminabile di primi piani pure inquadrati con una fotografia piatta da fiction tv. Gl’unici momenti davvero collettivi e comunitari sono nell’immagini di repertorio in b/n (!), sennò è un susseguirsi di scene sconnesse e personaggi “protagonisti per caso”: Tom Wilkinson nell’unica location della stanza ovale, Malcom X ed Edgar Hoover ridotti a una o due comparsate, il ruolo dell’FBI liquidato con alcune sovrimpressioni e Martin Luther King che c’entra e non c’entra, apre “Selma” col suo Nobel per la pace 1964 ma non è un biopic su di lui, s’affronta il suo ruolo di leader del movimento privo di derive violente ma non vengono approfonditi né il suo lato pubblico né quello privato, le sue vittorie come le sue sconfitte. Il “Gandhi” (1982) d’Attenborough mostrava l’efferatezza della repressione/rappresaglia bianca con un impatto visivo e una forza narrativa che qui mancano, idem per gli screzi coniugali, l’assassinio, il crollo del sogno d’una pacifica convivenza multietnica. Altrettanto latitante un’analisi seria sulle “radici dell’odio” verso l’integrazione razziale: Parker in “Mississippi Burning” (1988) osava giungere al punto critico degl’insegnamenti biblici (cf. http://www.imdb.com/title/tt0095647/quotes?item=qt0225523). Il pastore protestante King, timorato di Dio, sembr’esserne ignaro. L’impressione conclusiva è d’un’opera low-budget (20 millioni di dollari), prodotta da Pitt che, dopo “12 anni schiavo”, insiste nelle lezioni paterne per il “melting pot” familiare della sua mezza dozzina di figli (cambogiano, vietnamita, etiope, namibiano, francese), e firmata da una regista dell’epoca Obama: primo presidente USA afroamericano, ergo conseguenza diretta di questa marcia e della legge che ne derivò, e ciononostante ancora alle prese con discriminazioni e disordini etnici che sfociano in rivolte e tumulti popolari. Se s’augura un nuovo MLK ch’incanali lo sdegno degl’attivisti verso pratiche pacifiste, la DuVernay s’è messa al suo servizio, ufficio propaganda.
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