Selma, lo rifaremo ancora
Stati Uniti, anni Sessanta. Gli afroamericani sono cittadini di serie B. Senza diritti. Senza rappresentanza politica. E se osano protestare, i manganelli (e non solo quelli) colpiscono senza pietà. Nel sud della cosiddetta “patria della libertà” svillaneggia pure il Ku Klux Klan, violenta falange di stampo razzista che uccide e impicca i negri senza alcuna conseguenza penale. A cercare di cambiare lo status quo è arrivato un uomo “novo”. Un pastore che predica la nonviolenza. Il suo nome è Martin Luther King.
Selma (2014, di Ava DuVernay). La misura è colma. Martin Luther King (David Oyelowo) è pronto a compiere il grande passo. Una marcia nello stato segregazionista dell’Alabama, da Selma a Montgomery per chiedere, anzi pretendere dal presidente Lyndon Johnson (Tom Wilkinson) una legge federale sui diritti degli afroamericani. Ma lì, ad aspettarli dall’altra parte dell’Edmund Pettus Bridge di Selma c’è la ferocia legalizzata della polizia, ben aizzata dal governatore Wallace (Tim Roth). King è un uomo con le debolezze di chiunque. Ha molti nemici capaci di far male, Edgar Hoover (Dylan Baker), capo dell’FBI, incluso. Le studiano tutte per sfiancarlo, senza lesinare nemmeno minacce di morte alla sua famiglia. Lui però avanti. Una ariete Gandhiano alla testa di un popolo, degno di morire insieme ai bianchi nel Vietnam ma non meritevole di vivere in pace in patria.
Come tutti i colleghi, anche l’Edmund Pettus Bridge è un elemento di unione o separazione. Struttura architettonica o mentale. Nella storia recente tutti ricordiamo il ponte di Mostar (Stari Most), abbattuto dalla Forze Secessioniste Croate il 9 novembre 1993 nel corso della Guerra dei Balcani. Una dichiarazione mortale di insuperabile divisione con il mondo musulmano. Oggi quel ponte l’UNESCO l’ha ricostruito ma la Bosnia rimane una terra divisa. E così anche a Selma, dove nel 2015 la gente di colore lo può attraversare senza paura di ritrovarsi legata e appesa a un albero, ma com’è palese dai recenti fatti di cronaca, il nero viene ancora discriminato negli Stati Uniti. Lì, come in Italia, dove al posto del Ku Klux Klan c’è il razzismo opportunista del partito politico della Lega Nord o peggio quello ancor più viscerale e violento di CasaPound. La storia della segregazione razziale negli Stati Uniti non viene mai affrontata come e soprattutto quanto si dovrebbe. Si passa sopra e per più ragioni. Le più evidenti, il fatto che sia un nervo ancora (parecchio) scoperto e una realtà attuale (sebbene non certo ai livelli di cinquanta anni fa). Non va dimenticata poi la candida facciata che il governo a stelle e strisce vuole sempre ostentare, e guai se qualcuno prova a metterla in discussione.
Sono tanti gli spunti che Selma (2014, di Ava DuVernay) offre allo spettatore ma il risultato non è così forte come sarebbe stato lecito aspettarsi. Un altro pianeta rispetto al collega di filone “12 anni schiavo” (2013, di Steve McQueen). A mancare a Selma infatti è proprio la bruta crudeltà di un sistema che uccideva senza pietà. E se per le coronarie degli spettatori più sensibili ciò è stata un’inaspettata sorpresa, resta la delusione di una mancata opportunità di osare nel nome dei diritti, di Martin Luther King e delle tante vittime di colore.
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