“Selma. La strada per la libertà” (Selma, 2014) è il primo lungometraggio della regista di Los Angeles Ava DuVernay.
Una città, una marcia, un uomo. La linea adottata dalla regista (alla sua opera prima) è rituale, filo schematica, scontata, minima e voracemente anti stressante. Tutto senza infierire eccessivamente e togliendo il bisturi ( se così è da paria una produzione cinematografica che ha voglia di raccontarci per bene) quando è (quasi) necessario e il bisogno (non ultimo) di affievolire per piacere(ci) nella speranza di premi a-posteriori per la Storia che ci tiene lontani (da marciatori e da facili commozioni) in una serata da applausi (senza lustrini eccessivi per rispetto del sangue versato).
Che dire quando il gioco ‘dei fatti’ va avanti con didascalie sul resoconto giorno-ora tipo ‘indagine’ senza nessun mordente e vero avvicendamento per lo spettatore: in quanto tale (fiacca) la prima parte appare alquanto liscia, semplice e, convenzionale, da ‘produzione’ televisiva con immedesimazioni e inquadrature molto rigide, scavate e, dignitosamente, quasi mai fuori da un ordinario e una routine stancante e monocorde. Ciò che t’aspetti c’è, non un modo ‘avvincente’ (non dico frenetico) di presentare l’antefatto ad una marcia di protesta.
Le date furono tre (per correttezza di informazione) e il film ne riporta gli epiloghi: la prima il 7 marzo 1965 (‘Bloody Sunday’), la seconda il martedì 9 marzo (‘Turnaround Tuesday.’) la terza il 16 marzo con arrivo davanti al tribunale di Montogomery.
Il personaggio Martin Luther King (nelle vesti dell’attore David Oyelowo), rimane intrappolato, vitreo, dolente e alquanto didascalico tutto il resoconto con attenzioni al nucleo familiare e a risvolti alquanto marginali. La marcia da Selma a Montogomery non ha forza di vera ‘rivolta’ sullo schermo e la preparazione appare fiacca, dimessa e in tono da pomeriggio ‘televisivo’ più che cinematografico. Poco sentito e ogni lascito per le future generazioni appare costruito e macchinoso. La spontaneità è chiusa, indietreggia (come nel discorso davanti al tribunale. E il tributo arriva quasi distaccato e senza sconti il film chiude con molte scritte prima e dopo ma lontane da noi e dalla politica viva degli anni. E le immagini reali (per brevi istanti) sono quelle che danno passione vera a una storia non orchestrata bene e intrisa di faccende familiari (non appassionanti nel racconto) con incontri con il Presidente Lyndon B. Johnson (per ottenere il diritto al voto per gli afroamericani) di impari recitazione -di fronte l’attore Tom Wilkinson- (solo il destino conviene darlo per ottenere un ‘giusto’ ricordo per il futuro nella ‘storia’) per un teatralità legata.
Il film avrebbe meritato una sceneggiatura di migliore levatura (solo un cenno a Malcom X) e la regista Ava DuVernay limita i danni con inquadrature ‘convenzionali’ e ‘ordinarie’. In un paio di sequenze si ricordano una carrellata (esterna) efficace (sugli incidenti) e un movimento di macchina verso l’alto del ‘ponte’ dove la marcia stava aspettando. Anche chi scrive aspettava qualcosa in più (nonostante il logo pubblicitario del film dava il resoconto di una critica unanime di cinque su cinque stelline…propaganda d’uscita…mal riuscita e gli incassi non stati degni di nota).
Voto: 6-
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