Che succede quando un uomo decide che quando troppo é troppo?”
Nel 1965 la lotta per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti ha raggiunto il suo apice, ma certe conquiste basilari come il diritto di voto dei neri sono duramente contestate, specialmente negli stati del Sud come l’Alabama, in cui i funzionari pubblici sono tutti bianchi e si rifiutano di abbandonare le vecchie consuetudini razziste che vedono i neri come esseri inferiori. Allora il più importante leader nero, Martin Luther King (David Oyelowo) decide di indire una marcia di protesta che passerà attraverso la città di Selma per arrivare a Montgomery, capitale dell’ Alabama, per imporre una volta per tutte la piena uguaglianza fra bianchi e neri, malgrado gli inviti a non farlo dell’ allora presidente Lyndon Johnson (Tom Wilkinson). Ma il suo e’ un percorso in salita: deve appianare le divergenze all’ interno del suo movimento, fronteggiare gli attacchi del Ku Klux Klan e della polizia dell’ Alabama controllata dal razzista governatore George Wallace (Tim Roth), inoltre e’ sottoposto a una campagna denigratoria e di spionaggio da parte dell’ FBI il cui direttore J. Edgar Hoover (Dylan Baker) vede in King un pericoloso sobillatore da colpire anche nei suoi affetti privati, in particolare la devota moglie Coretta (Carmen Ejogo). Ma King non si arrende, malgrado le crescenti violenze, intimidazioni e i primi morti.
Raramente il cinema, specie quello hollywoodiano, ha avuto il coraggio di narrare la vita (o un pezzo di essa) del leader afroamericano che ha dedicato la sua vita alla lotta contro la discriminazione razziale, lotta che ha continuato fino al suo assassinio nel 1968, da una parte perché l’America bianca lo ha considerato come un pericoloso radicale da vivo per poi santificarlo da morto, mentre i neri sono sempre stati suscettibili sul modo in cui il loro leader veniva ritratto. Questa riluttanza ha spinto il cinema a dedicare ben pochi film al tema delle ingiustizie razziali negli Stati Uniti (eccetto alcune eccezioni come “Mississippi Burning” e “Malcolm X”). A vincere la sfida e’ stata l’afroamericana 42enne Ava DuVernay, la quale ha scelto di raccontare un episodio fondamentale della vita di King in cui il protagonista non viene santificato ma restituito al pubblico come l’uomo che era, con tutti i suoi dubbi, l’angoscia, le paure, la rabbia, l’affetto e una certa consapevolezza del suo destino ultimo; un contributo importante e’ stato dato in primis dagli attori, in particolare David Oyelowo, la cui mimica lo rende quasi una reincarnazione vivente del vero King (da questo punto di vista risulta incomprensibile la sua mancata candidatura agli Oscar come migliore attore protagonista) ma anche gli altri interpreti svolgono bene la loro parte. Il film della DuVernay vuole essere una rivisitazione storica e visiva di un capitolo della storia americana frettolosamente archiviato ma ancora dolorosamente vivo (basti pensare alle recenti tensioni a Ferguson e a New York) ma è anche un omaggio a un modo di fare politica “per il popolo” nel vero senso della parola: King e’ un leader disposto a lottare quanto a negoziare con il nemico ma sempre allo scopo di perseguire il fine ultimo che si e’ prefissato, infischiandosene delle minacce alla propria incolumità come dei calcoli politici a breve termine che invece sembrano determinare la condotta del presidente Johnson il quale viene spinto ad intervenire solo quando il livello delle violenze razziali aumenta in maniera incontrollata; a un certo punto King subisce anche la riprovazione dei membri piu’ radicali del suo movimento che lo accusano di non voler andare fino in fondo, accusa a cui risponde sostenendo di preferirli furiosi con lui che feriti o morti.
La regista sceglie di mostrare le vicissitudini del pastore nero e degli altri protagonisti delle vicende di Selma, con i loro discorsi e i relativi dubbi, riflessioni e altro seguendo un impianto narrativo di tipo convenzionale e di non parlare solo della violenza diffusa in quel periodo (in certi momenti si segue la vicenda leggendo frasi tratte dalle registrazioni di sorveglianza a cui King e compagni erano sottoposti da parte dell’FBI, tanto per non dimenticare la pressione a cui il movimento per i diritti civili era sottoposto anche da parte di quel governo che diceva di sostenere la loro lotta), ma quando lo fa il film passa a un registro inedito caratterizzato da un incrocio fra l’orrore e il fiabesco, come nelle scene dell’attentato alla chiesa di Birmingham, il pestaggio dei manifestanti sul ponte Edmund Pettus di Selma (in cui si vede anche un uomo a cavallo prendere a frustate i dimostranti, come un fantasma venuto da un passato segnato dalla schiavitu’ e dall’oppressione), l’assassinio del giovane nero ad opera della polizia e l’aggressione del prete bianco ad opera dei membri del Klan: queste scene sono realizzate volutamente al rallentatore, come a mostrare l’odio che deforma i volti degli aguzzini razzisti e il dolore e la paura che invece pervadono le espressioni delle vittime, quasi come un promemoria che ricordi agli spettatori qual’era la posta in gioco. Allo stesso tempo la narrazione passa da momenti di grande tensione emotiva e d’impegno incentrati sulle vicissitudini del movimento per i diritti civili ad altri momenti, meno politicamente impegnati ma non per questo meno emotivi, che hanno per protagonista King e la sua famiglia. Si tratta di un modo di raccontare la storia che va oltre il semplice documentario ma finisce per coinvolgere il pubblico alle passioni qui esposte come se fossero anche loro della partita, eliminando di fatto ogni distanza emotiva e facondo gli percepire l’umanità dei leader che hanno cambiato il mondo senza lesinare sui loro difetti e tormenti e senza metterli su un piedistallo come dei santi infallibili, come aveva già fatto Steven Spielberg con “Lincoln”: per quanto riguarda la vita di Martin Luther King si tratta della scelta estetica migliore, fare diversamente sarebbe stata una grave slealtà nei confronti della sua memoria e del suo lascito che sono già stati trasformati in un feticcio da mostrare in giro tanto per far credere che l’America di oggi è migliorata molto dal 1965 mentre invece molte tematiche affrontate in questa pellicola sono ancora attuali.
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