Joachim Lafosse, partiamo da qui: è il regista di Las Intranquilles, Dopo l’amore, À perdre la raison. Se avete un po’ di esperienza con il suo cinema (ottimo, ma da sempre mal distribuito dalle nostre parti) sapete che questo regista e sceneggiatore belga ama raccontare gli equilibri in via di disgregazione di coppie sottoposte a pressioni insostenibili, spesso connesse al malessere psichico. È sempre una questione di resistenza, dove il contenimento del dramma è affidato alla struttura di classe della famiglia borghese, alle reti sociali, talvolta semplicemente all’amore, raccontato un po’ come una forma di volontariato.
Un Silence, presentato a San Sebastian in concorso e in anteprima europea, racconta di un ricco avvocato francese (Daniel Auteuil) salito agli onori della cronaca per un caso di pedofilia che sta seguendo ormai da anni, come avvocato di una coppia colpita dalla disgrazia. Ma il film opera presto un ribaltamento di prospettiva: le notti insonni del protagonista, l’ossessione per la pornografia infantile, il fatto che lui stesso sia pedinato dalla polizia. Come se l’orizzonte patologico avesse investito tutto e tutti. E c’è una storia risalente a trent’anni prima che sta per tornare a galla.
La cosa più interessante del film è la gestione del tema: anche quando il protagonista è accerchiato da accuse infamanti, c’è una rete di sicurezza che ne conserva lo status e che trasforma il thriller in una questione politica. La moglie dell’avvocato (Emmanuelle Devos) protegge il proprio benessere e la propria memoria, e le istituzioni giudiziarie proteggono la struttura di classe che le origina. Ci vuole il dolore di un ragazzino, come una variabile impazzita, a scardinare il sistema sociale. Auteuil, in particolare, è perfetto nel raccontare il “sereno disagio” di un uomo che ha razionalizzato tutto, e tutto quindi pretende di controllare, compreso il suo istinto deviato.
Lafosse aveva già percorso questi sentieri in Lezioni private, passato a Cannes (nella Quinzaine) nel 2008. In quel film raccontava il rapporto abusivo tra un insegnante trentenne e un adolescente, mentre qui la relazione patologica è più sottile e ramificata. Il figlio dell’avvocato è stato adottato, un’altra figlia (biologica) se n’è andata di casa molti anni prima, nessuno sembra essere direttamente insidiato dei comportamenti dal padre, eppure tutti ne sono in qualche modo colpiti. La scoperta dei meccanismi tossici di controllo e abuso, della loro emersione alla coscienza e della loro “trattabilità” giuridica, sono l’obiettivo del film.
Messa in scena raggelata e una esposizione quasi astratta (onirica) dei luoghi (case, scuole, tribunali), come se tutto fosse avvenuto o avvenisse altrove, senza colpa né interesse di nessuno. Alla fine del film resta in testa il bisogno di “mettere a fuoco”: di capire cos’è andato storto, nelle persone e nel sistema con cui osserviamo il mondo.
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