Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potrebbe. La recensione finale della prima stagione

I primi otto episodi della serie fantasy sono andati in archivio: promossa o bocciata?

Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potrebbe. La recensione finale della prima stagione

I primi otto episodi della serie fantasy sono andati in archivio: promossa o bocciata?

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PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (2.5)
Fotografia (5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (4.5)

La prima stagione della serie più attesa dell’anno è finita. Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere si è subito imposta come un high fantasy dai valori produttivi fuori scala per il formato e il medium di riferimento, ma è stata in grado anche di dividere sin da subito e riportare in auge l’annosa guerra di religione tra canone e rinnovamento di un immaginario mitico di tale portata.

Non ha funzionato tutto, nei primi otto episodi. Sarebbe fin troppo indulgente sostenere che Gli Anelli del Potere sia riuscita da subito a giustificare tutti gli oltre 400 milioni di dollari spesi per una singola stagione – record per un serial televisivo. Tra forzature e concessioni, le varie linee narrative non sempre hanno mantenuto coerenza e vigore, trascinandosi qua e là forti di un piano produttivo così dilatato nel tempo da fornire la perfetta e facile scusante del “ci vuole tempo”.

In parte, è assolutamente vero: Gli Anelli del Potere è stata sin da subito pensata come un’opera corposa in più stagioni, un investimento che sfugge alle logiche seriali e streaming dei freddi numeri e di riconferme da conquistare a suon di utenti. Di conseguenza si prende tempi e spazi per ampliare il racconto, costruire una storia mitopoietica che vada oltre la sua stessa ispirazione. Un’operazione rallentata soprattutto da una scrittura non allo stesso livello dell’impianto tecnico proposto: insieme a momenti unici per il formato televisivo – come il sesto episodio e la “nascita” di Mordor – si sono alternate storture non solo rispetto al canone (relativo) ma allo stesso cosiddetto spirito tolkeniano.

A questo punto però si ripropone la questione: quanto deve davvero essere fedele ai lavori di Tolkien questo nuovo adattamento? La guerra tra fan(atici) e produzione è iniziata nel momento stesso in cui è stata annunciata la serie ed era in qualche modo preventivabile. Prime Video e Jeff Bezos, però, non avevano come missione quella di conquistare seguaci di un immaginario già assodato, ma di creare un nuovo fandom, di convincere la critica, di avvicinare nuovo pubblico al fantasy e in tutto questo anche di rientrare di un investimento economico da circa un miliardo di dollari.

Da qui si capisce l’esigenza di uccidere (o almeno tramortire) il vecchio per fare spazio al nuovo: Il Signore degli Anelli è un corpus letterario che si avvia verso il secolo di storia e la sua lettura è imprescindibile dal contesto storico-sociale in cui è stato realizzato. Non va certamente condannato a ritroso, ma è altrettanto inutile tacciare di agenda “woke” e indignarsi per la presenza di un elfo nero, quando la stortura (sociale, umana) è nella loro totale assenza nell’opera originale. In un mondo estremamente globalizzato e interconnesso come quello attuale, pensare di mantenere gli stessi criteri e target di riferimento di più di 50 anni fa avrebbe reso Gli Anelli del Potere tremendamente anacronistica.

L’universo di Tolkien, inoltre, è stato spesso associato a politiche di destra, estrema in certi casi. Lo dimostra lo sfruttamento semantico che l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano ne ha fatto negli anni ’70, frutto di una lettura politica secondo cui il cuore del racconto dello scrittore inglese stava nella dicotomia tra bene e male, tra tradizione e innovazione. La serie di Prime Video, invece, riflette una nuova sensibilità cinematografica e culturale, più aperta alle zone grigie e ad evitare qualsiasi -ismo politico. Non deve stupire, quindi, che nei nuovi episodi ci sia stato spazio persino per una origin story empatica nei confronti degli orchi o un’apertura alle posizioni di Sauron.

Il primo tentativo di distruggere e ricostruire, di omaggiare e rinnovare l’immaginario tolkeniano non è quindi da buttare. Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere, contratta nella cronologia e libertina nelle interpretazioni narrative (è basata unicamente su poche pagine di appendice, dopotutto) è una serie tanto imperfetta quanto ambiziosa, colossale nella messa in scena ma ancora fragile nell’intreccio. Uno sforzo descrittivo che potrà veramente ripagare solo alla fine di un viaggio a lungo atteso e che dimostra la sua fedeltà a Tolkien rivendicando la superiorità della fiaba alle esigenze imposte dal racconto sociale del “cosa dovrebbe essere”.

Tolkien stesso ha affrontato la questione in uno dei suoi più celebri aforismi: «Un lampione elettrico [ovvero il racconto della società] può essere ignorato, per la semplice ragione che è insignificante e transitorio. Le fiabe, invece, si occupano di argomenti più permanenti e fondamentali, come il fulmine». 

Per il momento, insomma, abbiamo assistito ad una serie costante nella qualità ma piatta negli acuti, una potenzialità in divenire. Gli Anelli del Potrebbe: può essere il più grande spettacolo dalla trilogia di Peter Jackson, oppure un’altra serie di passaggio, una particolarmente costosa. «Tutto ciò che dobbiamo decidere è cosa fare col tempo che ci viene dato», diceva Tolkien. Una lezione che Prime Video deve assolutamente imparare.

Leggi anche: Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere, un viaggio a lungo atteso. La recensione dei primi episodi

Foto: MovieStills

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