«Esisteva Eru, l’Uno, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altro fosse creato». Nelle prime parole del Silmarillion, l’opera mitopoietica che J.R.R. Tolkien ha scritto dopo Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit e pubblicata postuma nel 1977, si avverte subito la difficoltà che la serie Gli Anelli del Potere ha dovuto e dovrà affrontare.
L’autore inglese non ha scritto solo un libro, ma una Bibbia. Ha voluto dare cioè al panorama anglosassone un passato epico, religioso e linguistico che potesse rivaleggiare con la mitologia cristiana, norrena e via dicendo. Ma si può adattare la Bibbia, anche se marcatamente fantasy? Neppure Peter Jackson ha trovato una risposta alla domanda, “limitandosi” ad adattare gli altri libri di Tolkien in una doppia trilogia che ha segnato (specie la prima) la storia del cinema.
Prime Video ha provato a fare sua la sfida e dopo anni di preparazione e timori, è iniziato un viaggio a lungo atteso (crasi tra la festa attesa che apre l’avventura di Frodo e l’avventura inaspettata di Bilbo). I primi episodi de Gli Anelli del Potere si mettono alla giusta distanza tra la trilogia cinematografica e un corpus narrativo forse troppo complesso per essere adattato nella sua interezza. Balzando a piè pari cosmogonia e teogonia della Terra di Mezzo, la prima stagione parte dagli ultimi libri del Silmarillion, da quella Seconda Era che segna la caduta del regno di Númenor (capitolo Akallabêth), l’ascesa al potere di Sauron e la forgiatura degli Anelli.
Un periodo che precede di migliaia di anni la guerra con l’Oscuro Signore, il più potente servo di Morgoth/Melkor anche detto il Grande Nemico. Ma per gli anni degli elfi, non è che un secondo: così ritroviamo due giovani Elrond (Robert Aramayo) e Galadriel (Morfydd Clark), trait d’union con il resto degli adattamenti di Tolkien e ora protagonisti di un prequel che non ha nulla da invidiare, nei mezzi e negli intenti, al lavoro di Peter Jackson.
A sorprendere dei primi episodi è proprio come Gli Anelli del Potere sembra poter abbattere definitivamente le distanze tra grande e piccolo schermo. Distanza tecnica, quantomeno, perché quella esperienziale resta incolmabile: l’unico vero difetto strutturale dello show è proprio il suo confinamento mediale, perfezionato al punto estremo di qualità ma che meriterebbe di essere esaltato ancor di più non solo visivamente, ma anche da un impianto audio altrettanto in grado di risaltare la roboante epicità della colonna sonora di Howard Shore – allo stesso tempo vicino e distante dai suoi lavori per Jackson.
Le prime puntate (se non addirittura stagione: ne sono previste cinque in totale) servono notoriamente a presentare personaggi e a fornire un vocabolario di base al pubblico. Gli Anelli del Potere non opera diversamente, condensa al meglio le complessità mitiche del Silmarillion e introduce – adattando registri diversi a seconda della razza (l’aulicità degli elfi, la spensieratezza gioiosa degli Harfoot/Hobbit) – i grandi protagonisti del racconto, dando immediato valore e profondità a scenografie magnifiche.
È presto per dire dove Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere potrà arrivare, ma le prime impressioni fanno ben sperare per il proseguo: non è che uno sguardo ristretto su un’opera ancora più magna, ma si presenta già come una serie topica, capace di settare un nuovo impossibile standard per la serialità televisiva.
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