Quasi ogni Paese del mondo deve fare i conti con un passato (o un presente) scomodo e dominato da una figura dittatoriale, la cui malvagità ha ridefinito i contorni storici e sociali dello stesso. L’Italia ha Benito Mussolini, la Germania Adolf Hitler, per la Spagna è Francisco Franco e per il Cile Augusto Pinochet. El Conde, presentato in concorso all’80esima Mostra del Cinema di Venezia, è il tentativo di Pablo Larraín di fare i conti con questo passato, demonizzandolo nella maniera più mostruosamente classica possibile.
Il regista cileno si conferma principe dei biopic atipici: due anni dopo aver portato al Lido la ghost story su Lady Diana Spencer, questa volta ha deciso di esplorare la vicenda più sanguinosa del suo Paese. Rapido ripasso: nel 1973 il generale Augusto Pinochet, a seguito di un colpo di Stato ai danni del presidente Salvador Allende, ha instaurato un regime autoritario poi giudicato responsabile di crimini contro l’umanità. Avrebbe esiliato, arrestato, torturato o ucciso decine di migliaia di cileni (3.508 i morti ufficiali secondo il Rapporto Rettig) soprattutto nel primo decennio di dittatura. Arrestato nel 1998 a Londra, è stato posto agli arresti domiciliari e mai processato per sopraggiunta morte.
Per Larraín, però, oltre a tutto questo Pinochet era segretamente anche un vampiro. Le sue origini vengono fatte risalire ai tempi della Rivoluzione Francese e lui stesso viene trasformato in una figura letteralmente assetata di sangue oltre che di potere. In El Conde, però, lo ritroviamo sfiancato dai secoli, nascosto al mondo tranne che ai suoi figli e deciso a morire (per davvero). Prima, però, la famiglia cerca di assicurarsi da un lato la sua enorme ricchezza accumulata nei secoli, con l’aiuto di una suora-esorcista-contabile, dall’altro di ripulirne goffamente il nome. Come se i vampiri fascisti avessero fatto anche cose buone, insomma.
Quella del regista è una metafora chiarissima sin dalla sua premessa: Pinochet è un mostro, uno dei più classici, e attorno a questa rilettura fantastica viene costruita anche l’estetica del film, girato in bianco e nero con una fotografia chiaroscurale che strizza l’occhio ad alcuni capisaldi di questa filmografia di genere – come il Nosferatu di Murnau e il Dracula di Tod Browning con Bela Lugosi nei panni del Principe delle Tenebre. Le caratteristiche della creatura rivivono nel dittatore e diventano il pretesto per un film che si divide tra satira politica (non solo limitata al Cile) e qualche modesta nuance thriller.
Il problema di El Conde, e il suo più grande limite, è che oltre al divertissement contenuto nella sua premessa non c’è molto altro. L’acrimonia generazionale che guida Larraín, figlio di due politici conservatori e cresciuto nel Cile di quegli anni, non va oltre l’invettiva satirica: rispetto a Jackie o Spencer questo nuovo biopic ha molte meno sfumature, è di grana grossa come l’ironia che accompagna le scene nelle quali la suora elenca tutti i crimini perpetrati da Pinochet ai suoi figli, senza mai perdere il sorriso sulle labbra e con un surrealismo di fondo che può ricordare Wes Anderson per ritmo e scrittura.
Per certi versi è il Bardo di Pablo Larraín e non è una caso che dietro a entrambi i film ci sia Netflix: ha ricevuto massima libertà artistica, attinto al suo passato e tirato fuori tutto quello che aveva dentro giocando con la storia e il genere monster movie. Questa libertà è sicuramente un punto di merito per El Conde, ma proprio film come questo, quello di Alejandro González Iñárritu e anche un The Irishman di Martin Scorsese dimostrano ancora una volta come la potenza sia nulla senza il controllo, che anche una realtà come Netflix forse dovrebbe riportare equilibrio nella Forza produttiva che concede alla sua quota “autoriale”.
Foto: Netflix
© RIPRODUZIONE RISERVATA