Babylon: c’era un’altra volta a… Hollywood. La recensione del film di Damien Chazelle

Il regista di La La Land torna con un film tutto sesso, droga e Hollywood ambientato nella Los Angeles degli anni '20

Babylon: c’era un’altra volta a… Hollywood. La recensione del film di Damien Chazelle

Il regista di La La Land torna con un film tutto sesso, droga e Hollywood ambientato nella Los Angeles degli anni '20

babylon
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PANORAMICA
Regia (4)
Sceneggiatura (3)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (4.5)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (4.5)

A metà strada tra il tono da commedia revisionista di C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino e il toccante dramma personale à la The Fabelmans di Steven Spielberg, Damien Chazelle è tornato con Babylon a fare cinema quattro anni dopo First Man, liberandosi di qualsiasi zavorra formale per scatenarsi in tutta la sua strabordante potenza espressiva.

Ambientato nella Hollywood degli anni ‘20, agli albori dello star system cinematografico, è il tumultuoso racconto di quattro sognatori: per la giovane Nellie LaRoy (una Margot Robbie mai così ferale e sensuale, ben più che in The Wolf of Wall Street), lo spagnolo Manny Torres (Diego Calva) e il musicista nero Sydney Palmer (Jovan Adepo) sono sogni di gloria che ambiscono a toccare con mano quel mondo magico inquadrato lontano dai red carpet ma piuttosto sporco della terra che circonda le colline ancora spoglie di Los Angeles, mentre per Jack Conrad (Brad Pitt) si tratta di non passare dal sogno all’incubo e gestire amori e carriera sul viale del tramonto.

Sia che si tratti di un aspiranti attori, musicisti o addirittura del primo uomo sulla Luna, Chazelle resta fedele al suo credo narrativo e torna ad occuparsi del mito americano e della sua distruzione, di personaggi guidati da un torpore smanioso di grandezza e per questo obbligati a lasciare per strada qualcosa per raggiungerlo – che sia la moralità, la famiglia, l’amore o la salute. Da Guy and Madeline on a Park Bench in poi, Chazelle non ha fatto altro che destrutturare un archetipo ormai abusato dalle parti di Hollywood, quello del volere è potere, del piccolo grande sognatore destinato a diventare una supernova di successo e caparbietà. Come il giovane Andrew Neiman di Whiplash, la coppia di innamorati Sebastian e Mia in La La Land o il Neil Armstrong di Ryan Gosling, anche Jack, Manny, Nellie e Sydney devono fare i conti con cosa sono disposti a sacrificare per ottenere ciò che vogliono: un patto col diavolo che non risparmia nessuno.

Per raccontare tutto questo, Chazelle in tutta la sua carriera ha sempre scelto di adottare un estremo senso della misura che tuttavia non ha mai sacrificato euforia ed estetica: con Babylon, invece, si è abbandonato completamente agli eccessi della sua stessa fantasia ed ha confezionato un film smisurato, forsennato, talvolta pasticciato e sconnesso, ma colossale per impianto complessivo e soprattutto gestione dello spazio scenico (e delle centinaia e centinaia di comparse). Ormai scontato il gigantesco apporto della colonna sonora di Justin Hurwitz, il cui sodalizio con Chazelle è garanzia assoluta di dinamismo.

Babylon è una montagna russa di emozioni e di generi: si va dalla più becera e pregenitale ironia fatta di spruzzate di cacca di elefante, nani con peni giganti pronti ad eiaculare, cocaina, sesso e vomito, sino ad roboanti silenzi fatti di poche calibrate parole che fanno trasparire un senso di profonda malinconia dietro la maschera dello sfarzo e delle feste. Sprazzi di serietà che conducono ad un finale in assoluto crescendo ideologico e approdano ad una sequenza sorprendente per forma e contenuto.

Babylon – che nomen omen è un film spesso confuso, intricato e che non riesce e soprattutto non vuole trovare un proprio baricentro – a sorpresa diventa un nuovo canto d’amore per il cinema, un’epopea gloriosa che attraversa la storia della settima arte gettandosi alle spalle il passato in nome del progresso. Girato dopo le prime ondate di pandemia da Covid-19, Chazelle dice chiaramente che tutto il cinema nelle sue singole componenti è sacrificabile: lo sono gli attori, le maestranze, i mezzi e le modalità di racconto, ma ciò che sopravvive è sempre e solo il pubblico.

Pubblico che viene così omaggiato in una splendida scena che richiama il montaggio verticale usato da Kubrick in 2001: Odissea nello Spazio ma nato proprio negli anni ’20 dall’altra parte del mondo rispetto a Hollywood, nella quale viene prima identificato il soggetto (la sala) e quindi l’oggetto dello stupore e della meraviglia, ovvero il susseguirsi di fotogrammi su schermo che da Sallie Gardner at a Gallop di Eadweard Muybridge del 1878 ha continuato ad evolversi tecnicamente ma soprattutto artisticamente, acquisendo sempre più valore e importanza non solo nella cultura “bassa” e popolare – un punto caro soprattutto al personaggio interpretato da Brad Pitt.

Applaudito per Whiplash, acclamato per La La Land (che lo ha reso il più giovane regista a vincere un Oscar) e forse non capito fino in fondo per First Man, questa versione “a briglia sciolta” di Damien Chazelle ci ha regalato un film imperfetto, esuberante ma dal respiro libero e affannato come dopo un ballo a perdifiato. Proprio come quelli che per due anni ci sono stati negati.

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Foto: MovieStills

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