È interessante confrontare il modo in cui funziona il cinema di Wes Anderson se rapportato ai fantasy che ormai da qualche anno dominano il botteghino mondiale, dal Marvel Cinematic Universe fino ad Avatar. Se questi ultimi infatti applicano a contesti fantastici una ricerca di realismo che parte dall’aspetto scenografico e arriva fino alle emozioni dei protagonisti, Anderson fa l’opposto: stilizza a tal punto la realtà fino a svuotarla completamente. Dove il resto dell’industria del cinema prova a portare l’impossibile nel reale, lui si adopera per far sembrare il reale posticcio, mettendo in qualche modo alla prova la nostra memoria visiva.
Non è certo una novità, ma questo discorso è portato da Asteroid City a un nuovo colmo, in un modo che già il precedente The French Dispatch preannunciava. Siamo negli anni ’50, in una cittadina di 87 abitanti che occupa una mattonella di deserto da qualche parte tra Nevada e Arizona. Il motel, la pompa del gas, l’officina e un osservatorio astronomico circondano un sito militare, il cratere generato 5000 anni prima dall’impatto di un meteorite. All’orizzonte si alzano talvolta i funghi atomici degli esperimenti nucleari governativi, mentre l’unica strada che taglia dritta il paese è insidiata da cactus e mesa, le formazioni rocciose squadrate tipiche di quelle zone.
Qui si ferma con l’auto in panne un fotografo di guerra appena rimasto vedovo (Jason Schwartzmann) assieme ai suoi quattro figli, proprio quando sta per andare in scena l’evento più importante di tutto l’anno, la consegna dei premi ai “Junior Stargazers”, scienziati-inventori dei licei americani. Solo che, durante una serata di gala nel cratere, una nave aliena atterra ad Asteroid City, costringendo il presidente degli Stati Uniti a mettere il paese in quarantena.
Il tutto raccontato appunto nello stile di Wes Anderson al massimo del suo potenziale: recitazione, scenografie, costumi e dialoghi sono quanto di più antinaturalistico possibile.
Come se non bastasse, ad aumentare la distanza tra la materia del racconto e lo spettatore, veniamo subito informati da un presentatore (Bryan Cranston) che quello a cui assisteremo è in realtà uno sceneggiato televisivo scritto da un commediografo prematuramente scomparso (Edward Norton), di cui, in una serie di flashback, vediamo frammenti di laboratori teatrali e dialoghi con gli attori. Inoltre e infine, le scene del film sono presentate a coppie come le pagine di una sceneggiatura.
In questa operazione parossistica di astrazione del racconto e di scomposizione delle sue forme, è come se lo stile di regia di Anderson (i colori pastello, le inquadrature frontali, le brevi carrellate laterali, il cast infinito di star atomizzato in micro-ruoli) restasse l’unica cosa a cui aggrapparsi per instaurare un rapporto con il film – una forma di familiarità -, mentre il suo autore cerca di sfilarcelo via in ogni modo, un processo che a lungo andare diventa sfiancante.
Così, mentre The French Dispatch riscriveva la storia del Novecento francese attraverso gli articoli di un immaginario tabloid giornalistico, Asteroid City riscrive un pezzo di storia e di coscienza americana attraverso un immaginario spettacolo teatrale, che è anche uno show televisivo, che è anche il film che stiamo guardando. Se tutto questo sia ancora divertente o solo interessante da studiare, fuori da qualsiasi coinvolgimento emotivo, spetta a ognuno deciderlo per sé.
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