Assassinio a Venezia: Poirot, la morte può attendere. La recensione del film di Kenneth Branagh

L'attore torna a dirigersi per la terza volta nei panni di Hercules Poirot, ma questa volta si affranca dal romanzo di Agatha Christie per costruire un giallo da camera gotico e horror nel quale le "celluline grige" sono meno stimolate del solito

Assassinio a Venezia: Poirot, la morte può attendere. La recensione del film di Kenneth Branagh

L'attore torna a dirigersi per la terza volta nei panni di Hercules Poirot, ma questa volta si affranca dal romanzo di Agatha Christie per costruire un giallo da camera gotico e horror nel quale le "celluline grige" sono meno stimolate del solito

assassinio a venezia
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PANORAMICA
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La carriera da regista Kenneth Branagh è segnata da una certa palese “schizofrenia”: il nord-irlandese è passato spesso e senza soluzione di continuità da Shakespeare ai film dell’universo Marvel, dall’action Jack Ryan al biografico Belfast, da Cenerentola all’improponibile Artemis Fowl. Eppure, oltre all’amore per il Bardo, nella sua filmografia c’è un altro elemento comune ben più recente: la sua devozione a Hercules Poirot. Dopo Assassinio sull’Orient Express e Assassinio sul Nilo, ora è tornato con il più gotico e affrancato dei racconti: Assassinio a Venezia.

La prima novità da segnalare è che, rispetto al passato, questa volta Branagh ha deciso di camminare da solo. Il personaggio c’è, una parvenza di adesione letteraria anche, ma viene subito superata da una libertà mai così tanto reclamata. A Haunting in Venice è (liberamente) ispirato a Hallowe’en Party, romanzo di Agatha Christie del 1969 uscito in Italia con il titolo Poirot e la strage degli innocenti. Nell’originale romanzo Poirot incontra la scrittrice di gialli più famosa al mondo, Ariadne Oliver (alter ego della Christie qui interpretata da Tina Fey), e insieme indagano sull’omicidio di una ragazzina di 13 anni, Joyce Reynolds, uccisa durante una festa di Halloween e convinta di aver assistito ad un altro omicidio anni prima.

Niente seduta spiritica, niente medium e soprattutto niente Venezia. Kenneth Branagh e i suoi rimescolano completamente le carte in tavola e ambientano il tutto in un palazzo infestato della città lagunare, durante una tempesta che impedisce loro di andarsene. La seduta spiritica è organizzata dalla signora Drake (Kelly Reilly), la cui figlia è morta in circostanze misteriose. Per contattarla, arriva nel palazzo la medium Joyce Reynolds (Michelle Yeoh), della quale Poirot dubita fortemente ma la cui morte fornisce il pretesto per l’inizio di una vera e propria indagine. I soliti sospetti sono: la governante della casa, l’ex fidanzato della ragazza defunta, il medico traumatizzato dalla guerra e la guardia del corpo di Poirot, interpretata da Riccardo Scamarcio.

Il rischio di fare un passo falso c’era tutto, specialmente dopo i risultati non proprio esaltanti di Assassinio sul Nilo. Branagh è convinto di aver imparato la lezione di Agatha Christie e di poter organizzare una visione con delitto che sia fedele al materiale originale, ma allo stesso tempo gli permetta di esprimere al meglio quella che è la sua specialità della casa quando si tratta di portare in scena il celebre investigatore privato. Dopo due primi adattamenti abbastanza scolastici, qui il regista nord-irlandese riesce ancor di più a confezionare un film su misura, del tono e del genere nel quale è ambientato la vicenda: un giallo da camera gotico, con insistenti riferimenti horror e la sensazione che più che il cosa, in questo caso, importi il come.

Branagh è tornato nei panni di un Poirot estremamente crepuscolare, segnato dalla vita e dalla morte e deciso a rimanere in pensione, ma mai come questa volta il suo investigatore è contemporaneamente sullo sfondo della storia e al centro del palcoscenico. Le sue visioni sono il pretesto per sfoggiare uno stile registico fatto di insistenti primi piani, inquadrature oblique, ritmo nei dialoghi forsennato, ottiche e movimenti di camera stranianti punteggiati da una colonna sonora (di Hildur Guðnadóttir, premio Oscar per Joker) che crea una netta dissonanza tra forma e contenuto, stimolando reazioni più viscerali e lasciando a riposo le “celluline grigie”. Con risultati tutto sommato efficaci e che riescono ripetutamente a coprire le lacune narrative.

Perché lo sceneggiatore Michael Green sarà pure bravo (ha scritto Logan, Blade Runner 2049, American Gods e gli altri due capitoli di questo franchise), ma non è di certo Agatha Christie. Succede così che la tensione narrativa legata ai misteri della stanza chiusa dall’interno cali spesso sotto la soglia dell’attenzione, complici soluzioni prevedibili e che, con un po’ di intuito, depotenziano tutto l’aspetto più horror e gotico legato alle stranezze che capitano a Poirot durante la notte di Halloween nel palazzo veneziano. Abilmente, riescono comunque a recuperare sul finale, quando da canone il mistero viene svelato – ma anche in questo caso ad uno spettatore attento non sfuggiranno comunque dei punti ciechi nell’evoluzione del caso e nel suo disvelamento.

Il fascino dei locked-room mystery avanza per poter andare avanti, ma la sensazione è che ancora vada trovato un perfetto punto di equilibrio tra il Branagh-autore e il Branagh-interprete, di modo che l’uno non prevalga mai sull’altro e insieme possano far rivivere, se non lo spirito dei gialli di Agatha Christie, quantomeno quelle stesse sensazioni. La morte, più che mai centrale e presente in questo capitolo, può quindi attendere: sia quella professionale per Poirot, che quella artistica per l’intera saga. Nuovi capitoli potranno essere quindi ben accettati e attesi, soprattutto se Branagh saprà reinventarsi e adattarsi ogni volta al racconto come fatto in Assassinio a Venezia.

Foto: 20th Century Studios

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