A Murder at the End of the World: fin troppo elementare, Darby. La recensione della serie Disney+

L'ultimo episodio della serie di e con Brit Marling (The OA) ha svelato il mistero sugli omicidi hi-tech della serie

A Murder at the End of the World: fin troppo elementare, Darby. La recensione della serie Disney+

L'ultimo episodio della serie di e con Brit Marling (The OA) ha svelato il mistero sugli omicidi hi-tech della serie

a murder at the end of the world recensione
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PANORAMICA
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Quattro anni dopo la controversa fine della serie The OA, Brit Marling e Zal Batmanglij sono tornati a fare quello che a quanto pare sanno fare meglio: lasciare lo spettatore un po’ confuso, indeciso su quale valore assegnare al tempo passato a vedere le loro storie. Una qualità, più che un difetto, segno che la narrazione classica non è nelle loro corde e che alla base c’è sempre la volontà di lasciare qualcosa allo spettatore. È successo con la serie mistery di Netflix ed è stato ribadito con le sette puntate di A Murder at the End of the World, ora tutte disponibili su Disney+.

Al centro della vicenda c’è Darby Hart (la Emma Corrin apprezzata come giovane Lady D in The Crown), una detective amatoriale che ha acquisito una certa notorietà grazie ad un libro che racconta di come lei e Bill Farah (Harris Dickinson) siano riusciti a scoprire la verità su un serial killer di donne. Questa fama fa sì che il ricco visionario Andy Ronson (Clive Owen) la inviti ad un ritiro tra i ghiacci dell’Islanda, dove assieme ad altre otto persone si dovrebbe affrontare il tema del futuro e della fine del mondo. L’omicidio di Bill e un’altra serie di orribili accadimenti, tuttavia, rendono il soggiorno un altro mistero da risolvere per la giovane appassionata di true crime.

Un luogo isolato, una decina di possibili sospettati e la certezza che ad uccidere Bill sia stato uno di loro. Sulla carta, A Murder at the End of the World è un puro giallo alla Agatha Christie, un locked-room mystery (mistero della stanza chiusa dall’interno), genere che negli ultimi anni ha trovato nuova linfa grazie soprattutto alla serie di film prodotti, diretti e interpretati da Kenneth Branagh che adattano i racconti della Signora del Giallo – l’ultimo dei quali, Assassinio a Venezia, è uscito nelle sale proprio quest’anno (QUI la nostra recensione). Il fascino del genere è ancora innegabile: il lento disvelamento, unito alla costante ansia di trovarsi sempre in compagnia dell’assassinio, è una forza motrice sufficiente a tenere incollati al piccolo schermo, ma quando ci sono di mezzo Brit Marling e Zal Batmanglij non può limitarsi solo a questo.

Il giallo è solo il vestito scelto per l’occasione, la cornice di un quadro le cui intenzioni fanno ben oltre il semplice racconto d’intrattenimento thriller, ma puntano a stimolare una riflessione di qualche tipo. È successo anche con The OA: soprattutto la seconda stagione si è imposta come prodotto unico dalla forte autorialità, una via di mezzo tra Fringe e Twin Peaks. In quel caso, l’attrice, produttrice e sceneggiatrice che qui interpreta Lee Anderson, moglie del simil Elon Musk di turno con un passato da hacker, aveva fatto ricorso all’onirico e alla video-arte per irretire il pubblico e trascinarlo in una storia dai contorni sempre nebulosi, mai perfettamente a fuoco ma comunque affascinanti.

In A Murder at the End of the World l’impianto è sicuramente più classico, si arriva ad una soluzione finale e il genere crime è affrontato passo passo, con puntuali colpi di scena e ribaltamenti di fronte, ma è innegabile che tra le pieghe del giallo si insinui la sensazione che tutta la serie voglia in realtà imporsi come una sorta di allegoria ecologista pregna di un simbolismo ora sottile, ora tagliato con l’accetta. I futuristici piani del magnate dell’hi-tech Andy Ronson  fanno senza dubbio intendere che il focus è sul futuro, sull’impatto dell’intelligenza artificiale e sulla sempre più probabile apocalisse climatica che investirà l’umanità nel giro di pochi decenni e degli sforzi non sufficienti che si stanno facendo. L’idea di incarnare le speranze e le paure di questo futuro in un figlio di nome Zoomer e di fargli quindi rappresentare già dal nome la nuova iper-tecnologica generazione con tanto di risvolti tragici, invece, fa parte delle scelte talmente didascaliche da far storcere il naso. Fin troppo elementare, Darby.

Quella di Brit Marling e Zal Batmanglij è quindi una serie che si muove costantemente tra il classicismo e il simbolismo, un binomio sicuramente interessante e aiutato da buone interpretazioni e qualche discreto spunto (i flashback dell’indagine del passato per puntellare le rivelazioni della serie di omicidi in corso, per esempio), ma nel complesso resta sempre quella sensazione di smarrimento, qui con accezioni per fortuna più positive. Se i due puntavano a lasciare qualcosa dentro allo spettatore, fosse pure un senso di amarezza e di cinico sguardo verso il futuro, l’obiettivo è stato pienamente raggiunto. 

Foto: Disney+

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