Se un’opera d’arte non amalgama i propri livelli di lettura, impedisce una fruizione organica e scorrevole: se si limita ad affastellarli disordinatamente, l’accozzaglia disorganizzata determina una comprensione di specifiche scene a scapito delle altre. La “volontà sistemica e onnicomprensiva che guarda ai grandi maestri del cinema, quali Spielberg e Kubrick” (Emanuele Sacchi), Peele se la sogna. Conseguenza: il risultato complessivo è inferiore alla somma delle singole parti. La riflessione teorica s’una “ecologia morale dello sguardo”, dal prassinoscopio in poi, è quella biblica del libro di Naum 3:6 e di “Peeping Tom” (Powell 1960), la denuncia di Hollywood come sfruttatrice “società dello spettacolo”, moderna, tecnologica, digitale industria del cinema capitalisticamente ideata per produrre consumatori perenni, è quella del situazionismo di Debord, il rigetto dell’oscillante confusione tra realtà e simulacri è quello di Baudrillard, la critica alla rimozione del contributo afroamericano alla storia dell’Occidente è quella di Spike Lee. Evocando anche Shyamalan, Carpenter, Ōtomo, Anno, ci sono pure fantascienza, western, horror, mostri, e di nuovo il banale accumulo di generi non ne trascende i confini, mentre le metafore non si contaminano, non si miscelano, ognuna d’esse reclama l’intero focus attentivo creando un arcipelago di simbolism’inconguenti. Bulimicamente indigesto.
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