Lancette incardinate in una Mezzanotte lievissima ma incatenata a fantasmatiche, fugaci carrozze d’insipida evanescenza… Si stampiglian e “stappan” turisticamente, cartoline parigine per uno spettatore inebetito del fascino senz’età d’una città eiffeleggiante delle nostre proiezioni elefantiache.
Scatti inturgiditi di cristallina purpureità addolcite da un “dolce” glamour che c'”invereconda” d’irritazione, per com’è inedia d’iridi smaltate nella leccata furbizia ammicchevole per chi n’è già inteporito, “seralmente” moribondo a vaneggiar nei divanetti di poltroncine ove aleggiar fra aria condizionata e una che ti “scodinzola” di labbra turgidine-umide, arrossite già commosse di rossetto negli slavati primi rintocchi del suo rimmel inebriato, dal “sussurro” melodicamente smielato di romanticherie da svenevoli sbaciucchi tra un fotogramma “immobile” e un’altra sbirciatina alle monumentali “graziosità” di zuccheroso “occhiolineggiarci”.
Quasi, m’addormo, ma la “candida” levigatezza del mio peperin diavoletto di zolfi sempre desti, si (s)grida per l’immanenza “fulgorica” del platino ormonale d’una maliziata cerbiatta dalle gambe per ogni mansuetudine che si spelli di sano orgoglio virile, Rachel McAdams, Donna svettante per gli zenit di coloro anche poco spiccati, bocciuol che sboccia floridissima in abiti che non son succinti, ma la cingon aderentissima alle “atrocità” del mio desiderio.
Ché, d’innaffiar il mio Sguardo, della sua cremosa meraviglia, non m’asterrei neppur se davvero apparisse il vero Woody Allen, qui “sostituito” da un “basta che funzioni” ringiovanito, Owen Wilson. Di stessa movenza balbettante e “timida” palpabilità di puntual piglio nevrotico.
Un po’ di noia si spalma nei nostri neuroni, la cui tempra è solo irrobustita dall’intemperanza che “soffia” per la velata Rachel, di chioma già intrecciata al nostro “cioccolatinar” con Lei nella rosa icara delle fantasie proibite d’illecito Cairo, ché c’auguriam s'”incarini” ancora durante il film per “biondezze” recettive.
Ma, presto se la squaglia, e Owen s’inabissa in un esoterismo del suo tutto ciò che ho sempre sognato ma non ho mai osato “credere”.
Come per incanto, “scompare”, e dunque si sveglia, nella …e dintorni, d’onirimso adornata, degli anni’20, prima con Fitzgerald ed Hemingway… e poi, nelle altre notti, a smacchiar la sua “insoddisfazione” esistenziale in “combriccole” che ne “bracconeggian” l’umor calante.
Il Dalì d’Ardien Brody, cameo declamatorio del suo “rinocerontarla” per surrealismi “animaleschi” a berla di “burle” con Luis Buñuel, e una delicata storia d’amore con un’altra “smarrita”, amante del Tempo che non c’è, belle époque di libertine svagatezze ove si sarebbe “dissipata” con meno indagatorie “oculatezze”, per la sua perlacea anima e di chi se ne “infatua”.
A cristallizzar il destino d’eterei, fiammeggianti “moulin rouge”.
Di sulfurea sua trasparenza, il film s'”enigma”poco, tra battute di programmatico suo bofonchiarle, e un Wilson che passeggia ai bordi della Senna, e ne sorseggia aromi malinconici d’un impensierito “esserla” sfuggita.
Addii frettolosi e qualche brillantezza forse senza effervescenze, mentre Manhattan s’issa di suo rammemorarla quando fu davvero, sebben più plumbea, migliore.
E, un altro incontro “delizioso”, appena sfiorato, s'”inoltra” sotto la pioggia.
E, la delizia non è sempre un complimento.
A volte, s'”allenizza” troppo, allenata dal déjà vu francese.
(Stefano Falotico)
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