Lincoln: la recensione di Matelda Giachi

Lincoln: la recensione di Matelda Giachi

La verità è che quello del critico cinematografico non sarà mai il mio mestiere. Lo so perché io, con la critica, sembro essere d’accordo molto raramente.
A me, “Lincoln”, non è piaciuto.
Forse c’è qualcosa di sbagliato nel conoscere le nomination agli Oscar di un film prima ancora che questo sia ucito nelle sale. Finisci con l’aspettarti troppo. Ed io, da questo “Lincoln” targato Steven Spielberg e candidato a 12 statuette mi aspettavo davvero tanto.
Dodici è un gran numero, dovresti uscire di sala completamente “ubriaco”, riuscendo a pensare solamente “WOW”. Io, in tutta onestà, avevo un gran sonno.

Intendiamoci, era un film da vedere. Ha i suoi punti di forza, primo fra tutti un Tommy Lee Jones che in quei pochi minuti a sua disposizione sulla scena fa quasi ombra a Daniel Day-Lewis, perfetto nei panni del presidente americano e sulla cui nomination non ho assolutamente niente da obiettare.
Certo, volendo esprimere una preferenza, è Hugh Jackman che avrei piacere di veder uscire vincente da questa competizione, ma se, come accadrà sicuramente, Day-Lewis dovesse bissare il successo dei Golden Globes, sarebbe più che meritato.

Gioisco comunque del fatto che ai Globes “Argo” abbia trionfato su questo favoritissimo “Lincoln” sia per quanto riguarda la regia che la categoria miglior film, perché sono due statuette che ho tanto cercato nella pellicola di Spielberg, senza però riuscire a trovarle.

L’idea di concentrarsi sul 13° emendamento e sull’uomo, non solo il presidente, che ha lottato, anche ricorrendo a mezzi poco leciti, per il raggiungimento di uno scopo che riteneva essere importante più di ogni altra cosa per l’America e per l’umanità; che era padre affettuoso e marito paziente nei confronti di una moglie (Sally Field) affetta da sindrome bipolare, è vincente, ma non sfruttata a dovere.
Il film manca di energia, soprattutto durante la prima ora. Quando parlo di energia, non lamento certo la mancanza di avvenimenti eclatanti. Chi ha visto “Carnage” di Polanski sa che, di fatto, per 80 minuti di film non accade assolutamente niente; eppure si tratta di un piccolo capolavoro, di una potenza straordinaria.
La giusta tensione che dovrebbe accompagnare un momento storico così delicato e importante riesce a farsi sentire veramente solo quando, finalmente, giunge il momento del voto. Prima, mi sono illuminata d’immenso solo all’ingresso in scena di Joseph Gordon-Levitt (qui nei panni del figlio maggiore di Abramo Lincoln), peccato che, ahimé, le sue siano solo apparizioni fugaci.
Interessantissimo racconto storico, ma troppo documentario. Ogni tanto avevo paura che mi spuntasse fuori Piero Angela da dietro qualche colonna.

Non posso certo fingermi un’esperta di Steven Spielberg, la sua filmografia e immensa e la mia conoscenza ne copre, forse, metà. Quello che so è che, andando al cinema, non ho trovato lo Spielberg che mi ha rapito il cuore con “E.T.” o “Hook: capitan Uncino” o “Catch me if you can”, il maestro di “Schindler’s List”. Mi sono trovata davanti alla lentezza di “La guerra dei mondi” e di “War Horse”.

Sono sicura che a molti questo film sia piaciuto sul serio, come è giusto che sia, dal momento che il gusto è piuttosto soggettivo e che riconosco io stessa non sia tutto da buttare.
Una parte del successo di “Lincoln” credo però sia anche legata al nome del suo regista: oramai Spielberg è bello per forza, qualunque cosa faccia.
Ma, per me, Spielberg è decisamente meglio di così.

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