La legge di Lidia Poët: Matilda De Angelis è la prima avvocata d’Italia in una Torino misteriosa ed erotica. La recensione 

Prodotta da Groenlandia di Matteo Rovere (già in grande spolvero sul fronte seriale con Romulus) e approdata su Netflix, la serie è un esempio di serialità italiana che prova a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a fornire un modello à la page di narrazione contemporanea con un personaggio femminile rigoglioso e un contesto storico-sociale forte e vivido

La legge di Lidia Poët: Matilda De Angelis è la prima avvocata d’Italia in una Torino misteriosa ed erotica. La recensione 

Prodotta da Groenlandia di Matteo Rovere (già in grande spolvero sul fronte seriale con Romulus) e approdata su Netflix, la serie è un esempio di serialità italiana che prova a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a fornire un modello à la page di narrazione contemporanea con un personaggio femminile rigoglioso e un contesto storico-sociale forte e vivido

La legge di Lidia Poët
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PANORAMICA
Regia
Sceneggiatura
Interpretazioni
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

Torino, fine 1800. Una sentenza della Corte impedisce a Lidia Poët (Matilda De Angelis) di esercitare la professione di avvocato in quanto donna. Senza un quattrino ma piena di orgoglio, Lidia chiede al fratello Enrico (Pier Luigi Pasino) un lavoro presso lo studio legale da lui guidato e prepara un ricorso, decisa a ribaltare quanto deciso dalla Corte. 

Attraverso uno sguardo che va oltre il suo tempo, Lidia si occupa di ricercare la verità dietro le apparenze e i pregiudizi. Jacopo (Eduardo Scarpetta), un misterioso giornalista e cognato di Lidia, le passerà le informazioni e la guiderà nei mondi nascosti di una Torino magniloquente, quella del Regno d’Italia, quando la Mole Antonelliana (come vediamo a chiare lettere sullo sfondo) era ancora in costruzione.

La legge di Lidia Poët, prodotta da Groenlandia di Matteo Rovere (già in grande spolvero sul fronte seriale con Romulus) e approdata su Netflix, è un esempio di serialità italiana che prova a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a fornire un modello à la page di narrazione contemporanea con un personaggio femminile rigoglioso e un contesto storico forte e vivido, su cui innestare forti lampi di modernità e contemporaneità, a cominciare dagli sguardi in macchina alla Fleabag (quella categoria di “femminile irriverente”, must have per la serialità di oggi, sul quale ha ironizzato di recente anche Call My Agent – Italia).

Diretta dallo stesso Rovere e da Letizia Lamartire (Baby, Il divin codino), la serie creata da Guido Iuculano e Davide Orsini è un procedural in piena regola, dai tratti fortemente nostrani (il personaggio, realmente esistito, fu la prima avvocata d’Italia), impaginato come una sorta di risposta tricolore a Enola Holmes (con una spolverata di Sofia Coppola specie nell’uso delle musiche, dalle canzoni francesi a King dei Florence and the Machine che chiude l’episodio 6, l’ultimo) e nel quale ogni puntata monografica porta a compimento la risoluzione di un caso diverso.  

Lidia Poët si ritrova a combattere fin da subito contro i pregiudizi di genere e chi pensa che dare accesso alle donne al mondo dell’avvocatura rappresenti una grandissima svalutazione per la professione, ma il personaggio evolve non poco nel corso delle puntate, finendo col confrontarsi coi vari aspetti e i diversi strati della società torinese del tempo, dai caffè alle carceri passando per i bordelli. In tal senso la messa a fuoco di una Torino d’antan è perfettamente funzionale al fascino dell’operazione, così come lo è la scrittura di servizio alla detection story e la recitazione di tutti gli attori coinvolti, a partire ovviamente dalla protagonista, che prestano sussiego vintage ma anche tridimensionalità declinata più al presente ai loro caratteri. 

Basterebbero questi pochi aspetti per evidenziare come La legge di Lidia Poët sia una serie che si muove entro il tracciato della tv generalista ma rinnovandolo profondamente, con uno slancio e un afflato che oscilla dal femminismo ante litteram (la prima sequenza con cui ci viene presentato il personaggio è un cunnilingus da lei ricevuto) a dialoghi cesellati per spalancare nuovi mondi, tanto urbani quanto misteriosi e torbidi. Torino è dopotutto una città in cui il disseppellimento di enigmi e le tentazioni esoteriche non sono mai mancati, evidentemente, e i tratti di modernità che le sono sempre stati attribuiti permettono di scomodare tanto Schopenhauer quanto Thomas Edison in un dialogo senza che suoni come una forzatura intellettualistica (non esistono probabilmente altre città italiane dell’epoca con cui rendere quest’effetto appieno), per poi passare il secondo dopo all’universo sotterraneo e proibito delle sedute spiritiche e consentire così all’illuminismo filosofico e giuridico della protagonista di fare a pugni con l’irrazionalità delle fragilità umane che investono lei per prima. In tal senso, il connubio tra l’ambientazione e l’intreccio non rinuncia mai alla fascinazione ombrosa ed erotica con cui questo tutt’uno ci viene presentato. 

L’aspetto che più delude, al netto di tutti i pregi illustrati fin qui, è che l’evolversi del racconto non sembra avere spalle larghe a sufficienza per conquistare dal primo all’ultimo episodio. I singoli casi finiscono infatti, un po’ stancamente, col sovrapporsi e confondersi, somigliandosi un po’ tutti pur coinvolgendo soggetti diversi ed evidenziando dei tratti analoghi nel modo in cui vengono dipanati che tolgono smalto e mordente all’adrenalina e impediscono di appassionarsi a fondo. Un aspetto che, nonostante le risorse produttive messe in campo e le premesse artistiche e produttive di gran livello, relega La legge di Lidia Poët in una medietà che tuttavia, e per fortuna, non è mai mediocrità, e di sicuro supera di gran carriera le maglie da prima serata nelle quali la stessa storia sarebbe stata impigliata altrove. 

Un plauso particolare va fatto soprattutto alla recitazione di Matilda De Angelis (spina dorsale di tutta l’operazione), alla maniera in cui modula voce ed espressioni, passando dal determinismo acerbo e passionale delle prime puntate al rigore via via sempre più sprezzante della parte centrale fino a un epilogo in cui, in particolare a partire dalla penultima puntata, le fragilità del personaggio si sciolgono in momenti che sono sfacciatamente dolenti e lacrimevoli, pur senza mai sfiorire nel patetico e anzi prestando il fianco a un più tragico e chiaroscurale interventismo fisico. In mezzo c’è una carica seduttiva inalienabile che va a braccetto con una capacità di fare della libertà una prassi e del godimento di sé e delle proprie passioni una straordinaria rivendicazione sociale e identitaria. Il monito fondamentale è quello del non volersi più sentire sbagliata: nel 1883, come nel 2023. 

Foto: Groenlandia 

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