Il Grinta: la recensione di Massimiliano Morelli

Il Grinta: la recensione di Massimiliano Morelli

Ci vogliono pochi ingredienti per fare un Western. Basterebbero un cattivo cattivo che abbia fatto qualcosa di ripugnante. E ce l’abbiamo. E poi ci vuole un eroe buono, che non abbia paura di nulla e nessuno, possibilmente tracannatore di whisky. E c’ abbiamo pure quello. E poi ci mettiamo qualche cavallo e una buona dose di praterie sconfinate. C’è tutto. Ma così sembrerebbe di guardare il remake di tanta roba già vista. Ed in effetti, di remake si tratta. Chiedere al westernofilo Henry Hathaway, che un Grinta celeberrimo ce lo raccontò già nel 1969, ammesso che lo troviate ancora in piedi, a gustarsi questo rifacimento capolavoro. Ma allora? Allora, signori, avete dimenticato di metterci dentro due geni della macchina da presa. Lasciate che vi presentino i Fratelli Coen, e lasciatevi cullare senza pregiudizi filologici, nell’ epopea anomala di una piccola combriccola di eroi, che si mette alle spalle il fantasma di John Wayne, e corre sulle piste di una mezza sporca dozzina di fuorilegge brutti e cattivi, come volevasi dimostrare.

Una ragazzina, la splendida esordiente Hailee Steinfeld, in onore di Oscar, piccola come un chicco di pannocchia, un vaccaro texano, che ha il volto amabile di Matt Damon, e lo straripante vecchio segugio da whisky, Jeff “Il Grinta” Bridges, entrano nel cuore e negli occhi, paladini di una storia dai lineamenti semplici, come da canone west, ma al contempo meravigliosamente sbiadita nei contorni tra i Buoni e i Cattivi. Tolta forse la piccola Mattie, tenerissima nella sua sprezzante rincorsa a ‘guadagnarsi gli speroni’, tutti gli altri sono pallottole spuntate, tanto eroi quanto furfanti, sospesi sulla sottile linea di demarcazione di un’ epica sgarrupata fatta di uomini con la pistola che incontrano uomini col fucile. Proprio come in un vecchio carillon cowboy. La giustizia profumata di epica piace irresistibilmente agli spettatori di ogni età, e questo i Coen lo sanno bene, come lo sapevano i millanta predecessori che hanno cavalcato i sentieri cinematografici del vecchio West. Ma qui, c’è dell’altro. C’è un empatia straordinaria tra i volti e la storia, tra la regia e i luoghi, tra le colt e le distese infinite dell’ostile nazione indiana. Nei luoghi e nei topos di quel western balordo che fu l’ apprezzatissimo Fargo.

Non sono pennellate finite là per caso, le meraviglie visive del galoppo notturno tra le stelle, con Cogburn che sembra prima la sagoma sgangherata di un Don Chisciottesco cavaliere vanamente impavido, e poi si accascia con Mattie stremata tra le sue braccia, come nell’ eco country di una dolente Pietà di Michelangelo. Né sono casuali le scheletriche ombre sul finale crepuscolare, sparate in controluce verso l’orizzonte, come ombre cinesi che sistemano i conti con un passato che va a farsi fottere. Le facce sporche e sparacchiate dei protagonisti sono tutte ancelle memorabili del volto guercio di un Jeff Bridges iconico, avatar ancora più ‘Grintoso’ del precursore wayniano, che fu Oscar per l’Academy e per la memoria visiva dei posteri. Un viaggio al galoppo, alla ricerca di una giustizia, equidistante e biblica, come ci ricordano i versetti di ouverture. Carter Burwell ne scandisce l’ incedere di ironica dolenza, accampandoci su una colonna sonora meravigliosa, con la perla simbiotica tra storia, suoni e visioni, di quella corsa nella notte, che è il teletrasporto emotivo più memorabile del film. Se all’ inossidabile Rooster Cogburn basterà una sola pupilla da ciclope per tener testa a fucilate agli otto occhi della banda del lurido Ned gambale di pecora, state pur certi che i quattro occhi vispi e geniali di Ethan e Joel Coen, sapranno reggere con altrettanta spavalderia, lo sguardo ammirato degli occhi del mondo. Magari fuggendo anche loro, perché qualcuno li insegue. Per applaudire un capolavoro.

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