Pare che Calisto Tanzi, il vero protagonista del crac Parmalat, una volta abbia detto: «A parte quei 14 miliardi di buco, l’azienda è un gioiellino». Pur partendo da un fatto di cronaca, Il gioiellino non nasce come film d’inchiesta. Scopo del lanciatissimo Molaioli (dieci David di Donatello per La ragazza del Lago, tra cui miglior film e regia) è quello di farci respirare la schizofrenia dei protagonisti, che – mentre stanno precipitando nel baratro – continuano a dimostrare un incomprensibile ottimismo. Remo Girone è l’irragionevole vecchio imprenditore abituato a bussare alla porta degli amici importanti, Servillo è il ragioniere della società che risolve tutti i problemi, truccando i numeri.
Le atmosfere del film – amplificate dalla fotografia di Luca Bigazzi, che conferisce agli interni d’ufficio la stessa aura di sacralità delle navate ortodosse – sono languidamente decadenti, e valorizzano il lento scomporsi etico dei personaggi, mentre a latitare è la tensione da thriller finanziario, la suspance che ci si aspetterebbe all’approssimarsi del crac. Si sente, infine, la mancanza di un sguardo sovversivo alla Sorrentino del Divo, capace di trasfigurare la realtà nel momento stesso in cui la coglie. Come se il regista avesse preso in mano un pugnale che poi non ha avuto il coraggio, o la voglia, di affondare.
Inoltre è discutibile la scelta di lasciare fuori campo le vere vittime del tracollo economico della Parmalat.
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Mi piace
Servillo riconferma, come sempre, simpatia, piglio e bravura. E lo studio psicologico dei personaggi non delude.
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È un’occasione sprecata di costruire un grande thriller d’inchiesta. Una delle rare volte in cui un autore italiano contemporaneo decide di rifarsi alla tradizione dei Rosi e dei Petri, il risultato è un film fin troppo lento e introspettivo.
Consigliato a chi
Ai fan di Servillo e a chi si appassiona di cronaca italiana.
Voto: 3/5
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