Il Cigno nero – Black Swan: la recensione di Daisy83

Il Cigno nero – Black Swan: la recensione di Daisy83

Da un regista provocatorio e delirante come Darren Aronofsky non ci si poteva aspettare un thriller diverso da questo, aperto ad interpretazioni simboliche, occultistiche e psicoanalitiche, dalla prima all’ultima scena (che, tuttavia, si è guadagnato 5 nominations agli Oscar 2011). Nonostante sia un’opera eccessivamente ambiziosa, come tutte quelle realizzate dall’artista statunitense (π – Il teorema del delirio, The Fountain, per citarne alcuni), Black Swan riesce a mantenere un livello di tensione sempre crescente e a non scadere mai nel mediocre, anche grazie alla raffinata fotografia di Matthew Libatique (Iron Man e Inside Man) e alla coinvolgente colonna sonora in cui la musica classica si alterna ai brani dei Chemical Brothers.
In un’intervista, il regista ha dichiarato di aver immaginato The Wrestler e Black Swan, come due pellicole complementari, una che mira a sondare quella che viene considerata l’arte di livello più basso (il wrestling), e l’altra che si propone di indagare su quella che viene definita, invece, una delle più alte forme di espressione artistica (la danza). Entrambi i film sono orientati a rappresentare il corpo e l’uso della fisicità per esprimere la propria individualità più profonda e per ricercare, in essa, le cause di eventuali tormenti interiori, che spesso sfociano nel patologico.
Tuttavia, in Black Swan c’è una ricchissima impalcatura simbolica su cui poggia l’intera trama, ad iniziare dal conflitto tra la luce e le tenebre, tra bianco e nero, tra mente e corpo, tra eros e thanatos. Thomas Leroy introduce la storia riassumendola in poche parole: «Una fanciulla vergine, pura e dolce, intrappolata nel corpo di un cigno. Lei vuole la libertà, ma solo il vero amore può spezzare l’incantesimo. Il suo desiderio le sta per essere concesso sotto forma di un principe. Ma, prima di poter dichiarare il suo amore, il gemello lussurioso, il Cigno Nero, lo seduce e lo inganna. Devastato, il Cigno Bianco salta giù da una rupe, uccidendosi, trovando così nella morte la libertà».
In realtà c’è ben più di questo. Proviamo a riconoscere alcuni simboli presenti nella scenografia: partendo dalle prime scene, notiamo, sul muro della camera di Nina, delle farfalle, simbolo dell’ipotetico Progetto Monarch e degli esperimenti sul controllo mentale (prima nei campi di concentramento nazisti e poi ad opera della CIA), ma anche il coniglio (utilizzato in Donnie Darko), altro riferimento alla manipolazione psicologica in Alice nel Paese delle Meraviglie. Proseguendo, ci si può facilmente rendere conto di quante volte siano presenti le riproduzioni dell’immagine di Nina (che si muovono in maniera incontrollata) e soprattutto gli specchi, talvolta integri, ma spesso in frantumi, per simboleggiare le crepe nella sua personalità, ma anche le fratture che rimandano ad una penetrazione, nella sua psiche, di elementi esterni.
La storia della ballerina, che deve impersonare il doppio ruolo del Cigno Bianco e del suo gemello oscuro, è la storia di una dissociazione, intesa come meccanismo psicologico di difesa che spesso è riscontrabile, nella psicoanalisi, in individui che hanno subito un trauma infantile. Non si comprende bene quale possa essere il trauma di Nina, ma si allude spesso ad una malsana componente sessuale ed oppressiva nel rapporto con la madre, che la tiene quasi prigioniera, che blocca la sua crescita e la sua evoluzione fisica.
Le scelte stilistiche del regista spesso mirano a presentare in modo evidente il contrasto tra la perfezione estetica ricercata nella danza e il processo di metamorfosi di Nina, reso brutalmente, con distaccato orrore visivo, soffermandosi sugli elementi che lasciano percepire allo spettatore la sofferenza che provoca la crescita, all’interno del corpo della protagonista, di una presenza nuova, oscura, incontrollabile e disumana.
Le scene di danza, con tutta la grazia di arabesque, attitude e glissades, ripresi in campo totale, si alternano alle immagini della prima ballerina, di cui raramente vengono inquadrati i piedi, su cui ci si sofferma sempre con primi piani, per entrare, ancora una volta, simbolicamente, nella sua psiche, nella dimensione nascosta che cela, agli occhi delle sue colleghe e di Thomas, il continuo scontro che deve affrontare per non lasciarsi soggiogare dalla sua gemella, per non autodistruggersi nella ricerca della perfezione.
Più si va avanti nella storia e più sono presenti i tre colori che fanno riferimento ai tre stadi fondamentali dell’alchimia: Nigredo (nero), in cui la materia si dissolve, putrefacendosi; Albedo (bianco), durante il quale la sostanza si sublima; Rubedo (rosso, simboleggiato dal sangue), che rappresenta lo stadio in cui la stessa sostanza si ricompone e si fissa.
Aronofsky ci fa entrare nella mente di Nina, guardando tutto dal suo punto di vista, iniziando questo metaforico viaggio inconscio, con la scena del corridoio, girata parzialmente in soggettiva, in cui la protagonista si scontra con se stessa, vestita di scuro, con il suo alter ego che porta sul viso un’espressione sfrontata, naturale ma arrogante.
Si procede su questa strada, soffermandosi sul concetto di emancipazione dalla madre, dalla componente infantile, ma anche dalla manipolazione che la figura materna e oppressiva simboleggia, per poi passare al tema della sessualità, della libido, che costituisce, a livello psichico, l’espressione del desiderio sessuale, in contrasto con le pulsioni autodistruttive, che conducono inevitabilmente alla morte.
Natalie Portman è la fragile Nina, prima votata alla disciplina e al costante allenamento, poi sempre più in lotta con se stessa, sempre più carnale e sempre meno razionale, impaurita e affascinata dalla sua componente oscura che tende a trasferire, inconsciamente, sulla collega Lily (l’inquietante Mila Kunis), per la quale la protagonista prova livore, ma anche una forte attrazione. (Magnifica la performance di entrambe le attrici nelle scandalose scene lesbo!)
Non sono da meno Vincent Cassell, seducente pigmalione e Winona Rider, star attempata che sembra aver venduto l’anima al diavolo.
Tutto è finalizzato alla ricerca di una perfezione, che, come afferma Thomas, «non è solo questione di controllo. Si tratta anche di lasciarsi andare», di «trascendenza».
Nina deve imparare a padroneggiare sia il bene che il male, tirando fuori quella presenza che è nata e che sta crescendo dentro di lei, che vuole emergere ed essere liberata. La forza della componente oscura è rappresentata dalle ali nere, riprodotte in scene chiave, nelle statue, nel tatuaggio di Lily (il cui nome è probabilmente un riferimento al demone Lilith, spesso simbolo dell’emancipazione femminile e del potere dell’inconscio), ma soprattutto presenti nell’ultimo fouetté en tournant di Nina, che ha ormai completato la sua metamorfosi fisica, sviluppando lei stessa le simboliche ali del Cigno Nero.
Inesorabilmente, l’estenuante conflitto tra le due forze, tra la luce e le tenebre, in questo vano tentativo di creare un equilibrio tra loro, porta ad un’inarrestabile caduta, alla completa autodistruzione che segue il momento più alto, il raggiungimento della perfezione, fugace e istantanea quanto un battito di ali o un passo di danza che si consuma in un attimo.
Resta solo un plausibile interrogativo: se questa ricerca delle cause del nostro malessere nell’inconscio e negli istinti incontrollabili ci trascina verso un’illusoria perfezione e verso un’effettiva caduta, allora perché l’arte e la società contemporanea ci spingono sempre più per questa strada, trascurando una possibile apertura, invece, verso dimensioni sovra-razionali, che non riguardano più le pulsioni istintive e bestiali, ma le nostre, ormai sopite, facoltà spirituali? Chissà che non sia questo il viaggio che ci conviene intraprendere…

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