Non c’è tempo per dormire, esitare o pregare. L’arena è la tua prigione e tu devi essere l’unico ad uscirne vivo e trionfante. Non badare agli agi, non lasciarti incantare dalle luci abbaglianti e dall’apparenza di un mondo ingiusto e crudelmente amorfo. Il gioco comincia e tra sporcizia, violenza e dramma la caccia al più debole, come in una assurda e innaturale catena alimentare, miete le prime vittime. Il pubblico chiama, strepita, inneggia, forse per un attimo persino compatisce per poi tornare a desiderare altro sangue, altri giovani innocenti sacrificati sull’altare dell’oppressione. E se la critica al divertissement barbaro di una società incapace di aprirsi ad una diversificazione di massa, chiusa com’è in una mentalità classista e oligarchica, permea la prima parte e irrompe furibonda nella seconda, lo spirito sottocutaneo dell’opera filmica è paradossalmente più asciutto nei suoi veri intenti. Che, fungendo da monito disperato verso i nuovi adolescenti schiavi della manipolazione ideologica e culturale, rivelano in realtà come Panem non sia molto diversa dalla vecchia America. Un’America ancora profondamente debilitata dalle ferite di un recente passato che cerca nello spettacolo e nella distrazione di massa e delle masse una medicina all’insicurezza e alla paura. La stessa paura, che nelle parole del docile dittatore, è schiava di una più profonda e inconscia speranza che se riaccesa, forse, può indirizzare le coscienze di molti sul cammino della libertà.
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