Ai b-movie di Netflix, non entusiasmanti e concepiti in serie, ci siamo ormai abituati e Heart of Stone, l’ultimo in ordine di tempo proposto dal colosso di streaming on demand, non fa purtroppo eccezione, mostrando tutti i limiti di un approccio cinematografico al ribasso, che gioca talmente tanto sul sicuro da smarrire in partenza ogni sussulto degno di nota. Non è tanto più una questione di creatività “sospesa”, in casi come questi, quanto appunto di uno slancio derivativo senza ritorno, in cui ci si limita alla copia carbone, al Frankenstein di immaginari già ampiamente consolidati e saccheggiati.
È evidente infatti fin dalle prime battute come Rachel Stone, spia e agente dei servizi segreti interpretata da Gal Gadot, sia una sorta di risposta femminile all’Ethan Hunt di Mission: Impossible, con la star di Wonder Woman chiamata a impegnarsi in alcune corse alla Tom Cruise e perfino a lanciarsi nel vuoto con un paracadute illuminato, nel prologo sulle Alpi italiane della Val Senales di circa venti minuti, che precede i titoli di testa. Nonostante l’evidente slancio bondiano, tale sequenza è uno sfoggio di mezzi fine a se stesso, un set-piece autosufficiente ma anche totalmente slegato dal resto del film, in cui il design dell’azione è molto meno curato, ci si muove a cavallo tra Minority Report, il film di Jason Bourne (e chi più ne ha più ne metta…) e la sceneggiatura si perde in molti, inutili arzigogoli di troppo.
Ciò che segue è infatti un film identico in tutto e per tutto alle altre produzioni a misura di algoritmo di questo tipo, nella quali ciò che conta è anzitutto portare a casa la confezione e assicurarsi di timbrare il cartellino del production value, senza andare troppo per il sottile. Gadot, che nonostante il grande carisma si conferma un’interprete un po’ insipida, è un’agente speciale del MI6 dell’intelligence britannica il cui compito è preservare gli equilibri mondiali, impedendo a un hacker di rubare una strumentazione pericolosa. Il suo team, tuttavia, non sa che lei in realtà lavora sotto copertura anche per Charter, organizzazione che si avvale di tecnologie avveniristiche. A fare da ago della bilancia c’è un’arma, “il Cuore”, che può causare ripercussioni fortissime sugli equilibri globali, a riprova di come le intelligenze artificiali, specie di questi tempi in cui sono al centro di molte agende del dibattito (incluse quelle degli scioperi hollywoodiani) abbiano sempre più un altissimo potenziale, tanto infinitesimale quanto controverso.
Il titolo, Heart of Stone, cioè “cuore di pietra”, gioca evidentemente su un doppio livello semantico: da un lato il riferimento diretto al “MacGuffin” del film, dall’altro una strizzata d’occhio alla dimensione sentimentale della protagonista, alla quale è raccomandato, alla luce del suo lavoro, di non avere amici e relazioni. Il suo cognome, dopotutto, è proprio Stone: una suggestione così letterale e didascalica da giustificare ben più che un’alzata di sopracciglio, e che non può che alimentare giochi di parole altrettanto facili, stucchevoli e telefonati sull’assenza di cuore di un prodotto al quale non si può chiedere molto di più che essere un blando scacciapensieri per una serata estiva. Lussuoso, in compenso, il dispendio di location: oltre alle già citate Alpi italiane, anche la Praça do Comércio di Lisbona, il deserto del Senegal e gli algidi – ma non per questo meno “esplosivi” – paesaggi islandesi di Reykjavík.
Foto: Netflix/Skydance Media
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