Frankenweenie: la recensione di Antonio Montefalcone

Frankenweenie: la recensione di Antonio Montefalcone

Nel 1984 Burton fece un corto live-action in b/n della durata di 27’, interpretato da Shelley Duvall, Barret Oliver e da una giovanissima Sofia Coppola. Soltanto quasi 30 anni dopo, “Frankenweenie” si è potuto trasformare, ampliato e sviluppato, in un lungometraggio (1 ora più lungo) e in un cartoon in stop-motion (con aggiunta del 3D) e cioè in quel che avrebbe voluto realizzare all’epoca il regista, ma limiti di budget e rifiuti da parte della Disney (nel ritenere il progetto troppo pauroso per i bambini licenziarono l’autore) gli impedirono.
Con quest’opera il regista ritorna alle origini della sua carriera, al mondo della sua infanzia dark ed eccentrica, alle sue tematiche predilette. Tutto questo, nell’ultimo film, è riproposto e trattato alla luce della sua maturità, umana e professionale, con una vena di malinconia in più, e di lirismo e commozione più sentiti e maggiormente sottolineati rispetto alla pellicola originale, dove erano invece dosati con il tono semiparodistico, l’ironia grottesca e il macabro gentile dell’opera. Un Burton più adulto e consapevole, dunque, ma anche un Burton che purtroppo, ultimamente, dà ancora la spiacevole sensazione di essere sprovvisto di idee nuove e originali (vedi il suo “Dark Shadows”). Personaggi dalle bizzarre fattezze caricaturali, storia accattivante, tanto spettacolo visivo e altrettanto divertimento assicurato, regalano forza e qualità a questa godibile e deliziosa pellicola; anche se però non tutto nel suo complesso sembra essere perfettamente riuscito. E qualcosa purtroppo manca. E’ un piacere comunque ritrovare ciò che di buono vi era nel corto dell’ ’84 e cioè ritmo, belle invenzioni formali e narrative, cura dei particolari, atmosfera gotica, raffinatezza stilistica-figurativa (si veda l’elegante bianco e nero della fotografia o le inquietanti scenografie). E ancora più coinvolgenti sono lo spettacolo affascinante dei pupazzi animati, esaltato da un funzionale ed efficace 3D; nonché la vena citazionistica e la sincera passione per il cinema, trasfuse in ogni inquadratura. L’emozionante pellicola è infatti l’ennesimo atto d’amore del regista nei riguardi del cinema horror anni ’30 (dai film su “Frankenstein” agli omaggi a Boris Karloff e Bela Lugosi), arricchito stavolta anche dell’omaggio agli horror giapponesi.
Il film ricalca in parte il romanzo di Mary Shelley e, attraverso il percorso di maturità di un bambino, il protagonista Victor, nell’affrontare ed accettare la morte in sé e per sé, e non solo di quella del suo amato cagnolino Sparky, riesce con lodevole semplicità ad evocare i grandi sentimenti umani come la diversità e la morte, la loro accettazione, l’ansia dell’abbandono, l’amore, la fuga dal conformismo opprimente e paralizzante degli adulti. E poi ancora l’innocente ambizione, il potere della creatività e dell’immaginazione, l’inquietudine e il dolore esistenziale.
Finalmente, per la prima volta negli ultimi dieci anni, l’autore ritrova un po’ di quel suo genio “perduto” e riporta sul grande schermo una pellicola davvero libera, intima e personale, totalmente priva di vincoli esterni e capace di riequilibrare estetica e sentimento, se non come ai vecchi e gloriosi tempi, ma quasi. Il cartoon, infatti, è di pregevole fattura, ma viene a perdere nel confronto con altre due opere simili, quei capolavori di profonda poesia e originalità che erano “Nightmare Before Christmas” e “La Sposa Cadavere”. La sceneggiatura di “Frankenweenie” è infatti un po’ piatta e lacunosa; alcuni personaggi sono solo abbozzati e alcuni spunti narrativi non sono ben sviluppati; la colonna sonora, pur sempre suggestiva, non è però tra le migliori di Elfman; e restanti aspetti del film, nel bene e nel male, suonano un po’ minimali.
L’unica fonte di vero interesse allora è principalmente nell’ammirevole impianto di questo auto-remake, tutto costruito su una toccante impalcatura emozionale, tra autoanalisi e citazionismo di un autore che, come si diceva all’inizio, dall’alto della sua maturità artistica e umana, guarda oggi alla sua infanzia; e tra nostalgie, malinconie e vecchi fantasmi, può farne un ritratto più consapevole e rappacificato.
Ed è così se, forse, anche a livello filmico, risulta un po’ meno magico e incantevole del solito…
Ma si sa, è l’amaro, inevitabile prezzo di ogni metamorfosi che si rispetti, “bella” o “mostruosa” che sia…

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