Frances Ha: la recensione di Mauro Lanari

Frances Ha: la recensione di Mauro Lanari

Quando la sperimentazione diventa manierismo. Già capitò a Spike Lee nel 1986 con “Lola Darling”, che sembrava ancora il suo saggio di fine laurea stracolmo di rimandi cinefili per dimostrare d’aver studiato bene la storia della 7a arte, nel suo caso Godard mentre, nel caso di Baumbach, Rohmer e un pizzico di Truffaut. B/n di rigore, musichette francesi, balletti, l’immancabile corsa in piano-sequenza sulle note di “Modern Love” (“Rosso sangue”, Carax, sempre 1986), sceneggiatura improvvisata, pardòn: “spontanea”, montaggio frenetico e frammentario (come quello del 1° Jarmusch, “Stranger Than Paradise”, 1984) che, invece di dar verve alla storia, sembra più un trucco per nasconderne la vacuità. Ma no, la vacuità è espressione d’un impasse esistenziale che ha valore generazionale, è una crisi affrontata con leggerezza e grazia quanto l’Allen di “Manhattan” (1979). Tzk, questo è “mumblecore” nella sua variante peggiore, epigono di second’ordine di newyorkesi che rimpiangono di non essere nati a Parigi (le due resistibili protagoniste si chiamano Frances e Sophie) e mediocri scopiazzatori d’una vita bohemienne dove per giunta il dramma viene esorcizzato con frizzi che di fatto sono frivolezze. Empatia, antipatia? Amore, odio? Macché: apatia, disinteresse, tedio.
Ps.: se la struttura del racconto, più magmatica che non lineare, vi ricorda la Woolf, tranquilli. Anche lei viene esplicitamente nominata nel film.

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