Django Unchained: la recensione di luca ceccotti

Django Unchained: la recensione di luca ceccotti

Un film di Tarantino è un avvenimento.

Il buon Quentin ha dalla sua una delle migliori filmografie della storia del cinema. Iniziò nell’ormai lontano 1992 con il suo primo capolavoro, Le Iene, scrivendolo e dirigendolo. Presentato al Soundance Film Festival, il film in questione riscosse successo e pareri generalmente positivi, anche se da quel momento in poi iniziarono le critiche al suo cinema, “colpevole” di mostrare una violenza esagerata e a tratti di stampo razzista. Tarantino ha più volte spiegato, anche per i suoi film successivi quali il superbo Pulp Fiction fino al più recente Bastardi senza gloria, che il suo fare cinema o lo si ama o lo si odia. Molti lo amano, pochi lo odiano, e finalmente è arrivato in sala il suo ultimo capolavoro, Django Unchained, risollevando anche il polverone di critiche. Ma a noi interessa il film.

Django Unchained è senza alcuna ombra di dubbio uno dei film più personali di Tarantino nonché uno dei suoi migliori lungometraggi. Definito spaghetti western, Django in realtà è un mix di più generi che formano un qualcosa di nuovo. Ricco di citazionismo a qualsivoglia western o B movie ai più sconosciuti, questa ultima pellicola è un palese omaggio o, se vogliamo, divetissement del regista di Knoxville ai film italiani (ma anche non) di fine anni settanta, iniziando dal nome del protagonista fino alla spettacolare, strappa-appalusi e geniale scena finale.
In Django Unchained Tarantino tratta uno dei temi più scottanti e disumani della storia americana: la schiavitù. Django, infatti, altri non è che uno schiavo, fuggito con sua moglie da una piantagione di cotone e per questo punito venendo rivenduto a poco prezzo e separato dalla sua amata. In catene, venduto a due fratelli commercianti di schiavi, il nostro eroe di colore verrà liberato dal suo futuro mentore, il Dottor King Shultz, che poi di dottore ha solo il titolo. Libero, seriamente intenzionato a vendicarsi e pieno di rancore, Django partirà con il buon Dottore alla ricerca di sua moglie, incontrando nel suo cammino personaggi caricaturali quali Big Daddy e negrieri insensibili come Calvin Candie. Riuscirà a salvare l’amata Broomhilda ed essere un Sigfrido vivente?

Quando si parla di una pellicola di Tarantino c’è sempre l’imbarazzo della scelta. I suoi film sono sempre ricchi di tutto: ottima regia, eccezionali interpreti per eccezionali interpretazioni, buonissima fotografia, eccellenti colonne sonore e sopratutto le sceneggiature pregne di ironia, cinismo, intelligenza e sagacia. Allora Parliamo della sceneggiatura di Django.
Come ormai risaputo, la verve creativa di questo regista non ha limiti. Spaziando dal pulp allo splatter, passando dal Kung-Fu al blaxploitation fino ad arrivare al bianco e nero, giungendo infine al Wastern, tutti i suoi soggetti sono carichi di omaggi a tutti questi generi (e anche di più), e Django, come detto, non è da meno. Pur se meno volgare rispetto ai precedenti film del regista, Django ha dei dialoghi davvero sorprendenti, e lo si può notare sin dal primo incontro con il Dottor Shultz (circa 2 minuti dopo i titoli di testa). In pratica si inizia subito con scambi di battute lunghi, calibrati, divertenti. Si inizia subito a capire che Tarantino è rimasto lo stesso. Si procede con un ritmo sostenuto fino alle fine del film (circa 2 ore e 45, il suo più lungo), anche se con momenti un po’ lenti, ma essenzialmente non annoiando mai lo spettatore. Questo un merito che non va alla sola sceneggiatura, ma anche alla regia di Tarantino, mai così bravo. Zoomate veloci, messe a fuoco eccellenti e tocchi registici che non si vedevano da tempo, come il passaggio del tempo descritto tramite un breve discorso scritto che passa sullo schermo (inoltre da elogiare l’arrivo in Mississipi). Scene e dialoghi sostenuti vanno infine ad incorniciare quello che ormai è uno dei migliori registi del nostro tempo, e unico in quello che fa.

Infine la recitazione. C’è davvero poco da dire al riguardo. Jamie Foxx eccezionale nel ruolo di Django, nella scena finale da inchino. Leonardo DiCaprio si mostra per quello che già è, cioè un caratterista come pochi. Mai visto in un ruolo da antagonista, nella mani di Tarantino la sua prima volta in un ruolo del genere diventa anche la sua GRANDE prima volta. Il suo personaggio è quello di un Negriero proprietario di una delle più grandi piantaggioni di cotone del paese. Una figura rispettabilmente non rispettabile. DiCaprio semplicemente stupefacente nel dare l’accento del sud a Candie, prova linguistica che purtroppo nella versione doppiata in italiano si perde. Film come Django, dove si gioca con i dialetti ed il linguaggio, dovrebbero essere visti in lingua originale, dato che molta della bellezza del film e della bravura dei suoi interpreti si trova anche lì. E se questo discorso vale per DiCaprio, apparirà ancora più logico e appropriato per il fenomenale Christoph Waltz, nella parte del Dottor Shultz, un dentista divenuto inspiegabilmente (ma sicuramente a scopo remunerativo) un Bounty Hunter, o in italiano cacciatore di taglie. Ora, come già scoperto in Bastardi senza gloria, Waltz ha uno spiccato amore per le lingue. Parla in modo fluido Tedesco (è austriaco), Francese, Inglese e un po’ di Italiano, e questo amore riesce a trasferirlo anche negli accenti. Se, quindi, ad ogni modo in italiano è doppiato dal bravissimo Stefano Benassi, la sua performance rimane eccellente grazie soprattutto al suo linguaggio. Seppur sia un grandissimo attore (e ce lo ha dimostrato anche in Carnage di Polanski) il suo forte è quello. Perciò, vederlo in italiano ahimè è una gran perdita. Detto questo, Waltz si dimostra ancora una volta l’attore perfetto per Tarantino, interpretando con sapienza e divertimento uno dei migliori personaggi dell’anno. La scena d’apertura del film è dedicata completamente a lui, e lo spettatore se ne innamorerà subito. Come si innamorerà subito anche di un Samuel L. Jackson nel ruolo più bello e meglio interpretato della sua carriera, un padrone di casa Nero, come dice Django “La feccia della feccia”. Un nero che comanda neri, leccapiedi, servile e cinico. I suoi scambi di battute con Candie sono già nel cuore dei fan di Tarantino.

Chi ha mosso critiche verso il regista, definendo il film “razzista e violento senza motivo” dovrebbe arrivare a capire che Tarantino descrive. La schiavitù come la si può descrivere se non violenta? I combattimenti tra mandingo come si possono descrivere se non violenti? Una delle storia più buie d’america è il razzismo, e Tarantino ha voluto mostrarcelo a modo suo, introducendo elementi che non potevano mancare nel farlo, come il duro razzismo di quei tempi e la mancanza di umanità dei bianchi d’america. Django Unchained, oltre ad intrattenere, insegna come rimanendo fedeli a ciò che si è tutto diviene possibile. E così Tarantino è rimasto fedele al suo credo registico, sfornando il suo ennesimo capolavoro.

Un film di Tarantino è un avvenimento.

Voto: 9/10

Luca Ceccotti

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