Django Unchained: la recensione di BILLY91

Django Unchained: la recensione di BILLY91

L’OMAGGIO DI TARANTINO AL “SUO” WESTERN

L’ha omaggiato in quasi tutti i suoi film, non ha mai nascosto la sua passione per il genere ed infine vi è approdato come solo lui sa fare: “Django Unchained” è il western secondo Tarantino e nella pellicola si ritrovano tutti i tratti distintivi del regista; violenza visiva, una storia non propriamente convenzionale e tanti, tantissimi omaggi ai film cult del passato, preferibilmente di serie B. Ma andiamo con ordine: la trama ruota attorno al Django del titolo, uno schiavo di colore che viene liberato dal dottor King Schultz, un cacciatore di taglie che lo prende con sè. Assieme ammazzano molti fuorilegge e lo schiavo assapora la ritrovata libertà e l’occasione di vendicarsi dei bianchi che lo hanno maltrattato. I suoi pensieri, però, sono tutti per la moglie Broomhilda, schiava chissà dove…Schultz decide, quindi, di aiutare il suo compare a trovare e liberare l’amata moglie e così facendo i due si troveranno a confrontarsi con il pazzo latifondista Calvin Candle nel Mississippi.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la nuova fatica di Quentin Tarantino non è uno “spaghetti western” duro e puro, ma si presenta invece come un mix tra le varie tipologie di western che hanno caratterizzato la storia del cinema. Ovviamente, i riferimenti al western nostrano sono i più numerosi ed evidenti (i titoli di testa, alcune musiche, il nome del protagonista, il suo confronto col nostro Franco Nero, molte battute o situazioni), ma Tarantino non si fa mancare sentiti omaggi anche ai film di John Ford e al suo stesso cinema: impossibile, infatti, non riconoscere (in alcuni tratti) brandelli del suo “Bastardi senza Gloria” o evidenti rimandi a “Kill Bill Vol. 2”. È un film meno parlato, anche se non mancano i virtuosismi di sceneggiatura a cui il regista ci ha abituato, presenta una quantità maggiore d’azione e addirittura riesce a far assaporare allo spettatore attento l’atmosfera di un cinema che oramai, nell’epoca delle CGI, fatica a sopravvivere.
Il cast è strepitoso: Jamie Foxx è convincente nei panni di Django, Christoph Waltz si riconferma nella parte del dottor King Schultz e se da un lato la sua interpretazione ricorda l’ottima performance nel già citato “Bastardi senza Gloria” per i suoi tic e lo stile nel parlare e nelle espressioni, dall’altro lato ci consegna un personaggio stralunato, estremamente ironico ma capace anche di riflessioni profonde e nobiltà d’animo; a conti fatti, però, risulta esagerata la sua nomination agli Oscar quasi quanto crea sgomento l’indifferenza con cui i membri dell’Academy hanno trattato Leonardo Di Caprio: in questo film, l’attore sfodera una grinta invidiabile che sfocia in una delle sue migliori interpretazioni, così finalmente lontana dalle caratterizzazioni che solitamente gli sono affidate. Kerry Washington, nei panni di Broomhilda, affascina mentre Samuel L. Jackson stupisce ancora una volta per la sua bravura e il suo perfetto tempismo…chi scrive ritiene di poter eleggere a veri “mattatori” della pellicola Di Caprio e Jackson. Il resto del cast comprende volti noti del cinema di Tarantino, quali Don Johnson e Tom Savini, ma riserva anche piacevoli sorprese come i camei di Jonah Hill e dello stesso Tarantino.
Sul fronte tecnico la pellicola rasenta la perfezione: la fotografia varia dai toni caldi dei saloon e delle case coloniali del profondo sud, a quelli luminosi degli sterminati paesaggi americani, siano essi del Texas o del Mississippi. La regia di Tarantino gioca tra improvvise zoomate, piani americani degni di Sergio Leone, dolly e carrellate lente che conferiscono dinamicità al film e contribuiscono a tenere vivo l’interesse dello spettatore lungo i 165 minuti di durata che non pesano, ma anzi entusiasmano. Due parole anche sulla colonna sonora che, come al solito, gioca tra suggestioni diverse: l’immancabile Ennio Morricone degli “spaghetti western” si trova in compagnia di Luis Bacalov, compositore del tema del “Django” originale di Bruno Corbucci e a loro si affiancano la voce dolce di Elisa e alcune melodie originali prodotte apposta per il film. Una festa, insomma, per tutti coloro che si divertono a scovare ogni minimo rimando a quel grande cinema di genere che anche noi italiani sapevamo fare e che poi, senza un apparente motivo, abbiamo abbandonato per dedicarci solo a commedie convincenti ma spesso ripetitive o a film ben fatti ma molte volte (non tutte per fortuna) ermetici, auto-referenziali e difficilmente esportabili (non se la prendano registi come Soldini o Bellocchio).
In conclusione, “Django Unchained” è un ottimo western che si muove in due direzioni: la prima è quella del grandioso omaggio al passato tra citazioni e dichiarazioni d’amore ad un genere purtroppo non più sulla cresta dell’onda; la seconda, al contrario, è quella dell’attualizzazione della messa in scena (i rallenty, i dialoghi, i virtuosismi registici già nominati) che rende fresca ed originale anche un’idea di film come quella di Tarantino, che non si basa sui generi del cinema, ma sui film che hanno reso grandi quegli stessi generi. L’unica cosa che si potrebbe contestare a Tarantino, in questo film , è il fatto di essersi “contenuto” nei dialoghi e di aver lasciato spazio ai sottointesi, agli sguardi e alla mimica di ogni singolo attore…ma in fondo chi scrive non se la sente di condannarlo per questo. Anzi: questa scelta denota una grande umiltà di fondo, come se il regista si fosse reso conto di non poter ricodificare le regole del genere (come invece aveva fatto con “Kill Bill” o “Bastardi senza Gloria”) e si fosse quindi limitato (nell’accezione tarantiniana del termine) a seguire binari già tracciati, ma in maniera originale e non scontata. Rallegramenti e congratulazioni.
Edoardo Billato

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