Django Unchained arriva finalmente nelle sale. Il risultato? Tarantino proprio come il suo protagonista, scatenato.
Tarantino è un po’ bambino. Lo immaginiamo con la stessa eccitazione e la stessa fantasia di fronte alla prima pagina bianca della nuova sceneggiatura. Ha fatto di tutto, action, splatter, pulp, gangster, ha persino combattuto (a suo modo) i nazisti. Il suo cinema, che si ami o si odi come dice lui stesso, è già cult. E’ un genere a sé che lo ha già consacrato come icona vivente. Non c’è altro da dire quando il tuo nome indica qualcosa di ben specifico. E’ già successo a mostri sacri, si dice di un film “alla Kubrick” o di “felliniano” solo per citarne un paio. Django non è però solo la sua ultima fatica, è molto di più. E’ il finalmente confrontarsi con il suo genere preferito (western) e allo stesso tempo offrire un prodotto memorabile.
Omaggio al Django annata 1966 di Sergio Corbucci. Se li Franco Nero era un pistolero bianco coinvolto tra due fazioni, qui Django è uno schiavo nero massacrato dal lavoro e segnato dalle frustate. Siamo nel Texas e la storia inizia quando il dottor Shultz, apparente dentista, si rivela un micidiale cacciatore di taglie e libera Django, con sospetto interesse, da avidi mercanti. Tra i due viene stretto un patto: se Django aiuterà Shultz a riconoscere dei pericolosi ricercati, avrà libertà e denaro. Ma non sarà tutto. Scopertone un abilissimo pistolero, il dottore cambia la posta in gioco e dopo un inverno passato assieme a riscuotere taglie, darà appoggio fisico a Django nella ricerca disperata della moglie perduta. Scoperto quindi che la donna è proprietaria di un terribile latifondista del Mississipi, tale Calvin Candle, i due ingegnano un subdolo piano per riportarla a casa.
Film che grida solo una cosa: vendetta. Tema caldo e tanto caro a Tarantino. Il desiderio rabbioso e pieno d’orgoglio dell’oppresso, volto a rimescolare le carte della propria vita. Lo aveva fatto la Sposa prima, lo fa Django adesso. Tarantino sguazza nei suoi stereotipi, lo immaginiamo fremente ed eccitato di fronte ad ogni fotogramma, alla ricerca della perfezione, della minuziosità in ogni dettaglio. Il risultato è sbalorditivo. Ogni rumore, ogni paesaggio, ogni dialogo è meticoloso. Non sarebbe Tarantino se ogni scena non avesse una caratteristica da renderla indimenticabile. Zoomate sui primi piani, movimenti rotatori di camera già visti ne Le Iene e il tanto famoso “stallo alla messicana”. Omaggi e citazioni non si riescono a contare. Troppi e non tutti per spettatori occasionali. Ricordiamo solo l’incontro tra ” i due Django” (cameo di Franco Nero) e quello splendido nel finale de “Lo chiamavano Trinità”.
Tarantino incontenibile. Può tutto. Persino permettersi un cast stellare capitanato da due premi Oscar e uno (probabilmente) futuro. Jamie Foxx è un ottimo Django, un po’ ignorante ma onesto e devoto per quanto terribilmente vendicativo e spinto da furia ceca. Cristoph Waltz si conferma invece la più grande scoperta di Quentin. Reggerebbe qualsiasi film da solo e qui lo fa per largo tratto. Il suo dottor Shultz è semplicemente strepitoso, freddo, maniacale, dalla parlantina ipnotica. Da brividi quando in un paio di occasioni rievoca, per tono e pathos, il terribile Colonnello Hans Landa di Bastardi senza Gloria. Prestazione magistrale così come quella di Samuel Jackson altro attore feticcio di Tarantino giunto all’ennesima collaborazione. Lacchè fedele del suo padrone ma sciolto e sbrigativo quando c’è da far valere le proprie ragioni. Un ruolo secondario ma interpretato con sapiente maestria. Esordio invece per Di Caprio in questo nuovo universo. La sua maturità rende giustizia e Candle lo rappresenta in modo doveroso. E’ il Cattivo con la C maiuscola, tosto, spietato, affarista ingenuo, prepotente. E’ antipatico, come deve essere.
Feroce. Il sottofondo del film è puramente feroce. La schiavitù vista da Tarantino è genuina, imbarazzante e potente, il contrasto tra bianco e nero è nel periodo più buio della storia americana. Nessuna censura, nessun taglio. Alcune scene per quanto crude sono lo specchio di una civiltà discutibile, riprodotta fedelmente. Piantagioni, servitù, latifondisti e mercato della carne. Tutto fila, tutto è al suo posto. L’atmosfera spazia dal delirante al drammatico, con punte di pathos vertiginose. Gli attori sono bravissimi a enfatizzare. Tarantino è magistrale in regia. Serio e preciso per buona parte, arriva all’apice nell’ultima mezz’ora dove la sua creatività trova la folle esplosione. Metaforicamente parlando, si può dire che la scena dei “sacchetti bianchi” descrive semplicemente la sua natura.Poi l’eccedere con classe: salsa di pomodoro a fiumi, scontri a fuoco incredibili, cadaveri che schizzano via a cento all’ora e nel mezzo Django che urla la sua rabbia. Il tutto accompagnato da una sensazionale colonna sonora a 365 gradi che vede per la prima volta con Tarantino, musiche scritte appositamente (tra cui un brano di Morricone cantato da Elisa) per il film.
Si potrebbe parlare per ore di questo film da tanto che è il materiale da valutare. Quello che conta è che Tarantino ha fatto di nuovo centro, anche su un campo difficile per quanto amato come il western. Django Unchained è un forte inno alla ribellione che trasuda tutti i caratteri che hanno accompagnato il regista fino ad oggi. Neppure la lunghezza vacilla. Di quasi tre ore, ogni minuto è dovuto. Farà la gioia dei fans storici ma anche quella degli occasionali. Da vedere assolutamente.
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