Catturati da una spietata banda di criminali, Diabolik (Giacomo Gianniotti) e Ginko (Valerio Mastandrea) si trovano faccia a faccia. Rinchiusi in una cella, senza via di uscita e certi di andare incontro a una morte inevitabile, Diabolik rivela all’ispettore il suo misterioso passato. Intanto Eva Kant (Miriam Leone) e Altea (Monica Bellucci) sono alla disperata ricerca dei loro uomini. Le strade delle due rivali si incroceranno? Intorno a loro gravitano anche le azioni del sergente Palmer (Pier Giorgio Bellocchio).
Chi è veramente Diabolik? Le sorelle Giussani nel marzo del 1968, a cinque anni dalla pubblicazione del primo numero del leggendario fumetto, provarono a rispondere a questa domanda, scrivendo e poi pubblicando quello che probabilmente è l’albo del Re del Terrore più famoso di sempre: “Diabolik chi sei?“.
Ci hanno pensato i Manetti Bros., dopo due film dedicati al loro anti-eroe preferito della tradizione popolare italiana, ad affrontare la sfida di sobbarcarsi l’adattamento proprio di quel celebre albo. Un’operazione che hanno mandato in porto con lo stesso straniamento, filologico e nerd fino allo stremo delle forze, con cui erano stati realizzati gli altri due film precedenti; ma forse fanno anche qualcosa in più, oltre al consueto effetto da “fumetto filmato” che ha permeato tutta la trilogia e che per certi versi ne ha confinato e ridotto possibili implicazioni “alla Marvel” e hype mediatico.
Capitolo finale della trilogia dedicata a Diabolik firmata dai Manetti bros., scritta insieme a Mario Gomboli, attuale autore di uno dei fumetti italiani più longevi e affascinanti, in Diabolik, chi sei? viene svelato il passato del criminale e da dove viene il suo nome, in una vertiginosa origin story che i Manetti decidono di trasporre in un valzer di continui e serrati flashback, che alimentano, arzigogolano e in buona sostanza compongono l’intricato ma sempre godibile arco narrativo.
In Diabolik, chi sei? si trattava anche, per gli eclettici cineasti di bottega di Zora la vampira e L’ispettore Coliandro, di investigare frontalmente – e finalmente – il mistero intrinseco al “prima dai mille volti” di Diabolik, quel Re del Terrore che qui torna a essere interpretato, per la seconda volta, da Giacomo Gianniotti, che aveva già rimpiazzato Luca Marinelli, apparso solo nel primo capitolo e poi evaporato dall’operazione.
Chiaramente il film dei Manetti si interroga sulla natura eternamente sfuggente ed elusiva del ladro di Clerville e tale moltiplicazione infinita e seriale delle sue incarnazioni facciali è ben rappresentata non solo da questo cambio in corsa sulla scelta del protagonista, ma anche sugli innumerevoli camuffamenti e camei (da urlo quello di Max Gazzé) che costellano Diabolik, chi sei? (nell’ipotesi in cui si fosse cambiato nuovamente l’attore il film avrebbe avuto un valore “teorico” perfino più esponenziale, ma va senz’altro riconosciuto che Gianniotti è letteralmente perfetto per il ruolo).
Alcune scelte in questo senso sono addirittura pirotecniche anche in chiave demenziale, un po’ alla John Landis, mentre il film è abitato dall’idea, in chiusura di trittico, di portare al punto di massima deflagrazione lo stile para-fumettistico di regia, costumi, décor, modernariato assortito e oggetti di scena presi direttamente dall’atmosfera crime, visionaria e bidimensionale degli anni ’70 (dopo i ’60 del primo e secondo film), per i quali c’è il solito Luca Rea nel ruolo del consulente d’epoca per il decennio dei sixties.
Nel passaggio da un decennio al successivo, si registra anche, probabilmente per restituire tale significativo slittamento, qualche lampo kitsch e pazzoide in più, da puro, alimentare e assoluto godimento cinefilo; come nel caso, per esempio, di una sequenza di dialogo tra il giovane Diabolik, interpretato da Lorenzo Zurzolo, e Paolo Calabresi, che sfocia nel gore malinconico e posticcio di Mario Bava e del suo illustre “allievo” Tim Burton (che alla Festa del Cinema Roma ha visto il film in sala in compagnia della sua nuova compagna, Monica Bellucci), specie quello de Il mistero di Sleepy Hollow e Sweeney Todd.
Come sempre, la messa in scena sul piano action è volutamente povera, ma abbondano in compenso dettagli che parlano da soli: virtuosismi visivi che feticizzano e cannibalizzano maniacalmente le soluzioni grafiche del fumetto, riproducendoli in chiave filologica in un prodotto che – proprio questa sua natura intrinseca, scelta con rigore e precisione – si rivolge prettamente ai tanti appassionati del fumetto delle Giussani ma anche alla sensibilità cinematografica e generalista tout court.
Questo “limite” di target rimane anche qui, naturalmente, inalienabile. «Abbiamo cercato, ancora una volta, di essere fedeli al lavoro delle sorelle milanesi, cercando semplicemente di trasferire al cinema la suggestione dalla pagina disegnata. “Semplice” non vuol dire “facile”, ma questo è l’obbiettivo che ci siamo prefissati», hanno detto a tal proposito i Manetti che nel primo film hanno raccontato Diabolik dal punto di vista di Eva Kant, la donna che si innamora di lui e che, affiancandolo, lo completerà; nel secondo attraverso quello dell’ispettore Ginko, l’uomo che gli dà la caccia e alza costantemente il livello della sfida; nel terzo, infine, hanno scelto di raccontare Diabolik dal punto di vista di Diabolik stesso, indagandone anche la soglia ombrosa e ambigua di auto-coscienza in merito alle sue origini, che contribuisce da sempre a renderlo una maschera popolare così magnetica, fascinosa e indecifrabile.
Foto: Mompracem, Rai Cinema
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