Call My Agent – Italia, il remake nostrano della serie cult francese Dix pour cent (Call My Agent!) ora disponibile su Sky e NOW, narra le vicissitudini di una potente agenzia di spettacolo e le storie dei suoi soci, alle prese con le carriere delle più grandi star del cinema italiano, per un viaggio che si prefigge di essere un ironico e dissacrante dietro le quinte del nostro showbiz. Nella versione italiana, infatti, l’agenzia di management di attori al centro del racconto, la CMA (Claudio Maiorana Agency), si sposta da Parigi a Roma, e così le vicende, fra lavoro e vita privata, dei suoi carismatici agenti e dei loro assistenti.
Lea, Gabriele, Vittorio ed Elvira sono l’anima della CMA e a questa danno l’anima, pronti a tutto pur di far brillare le loro stelle. Manager, amici, confidenti e psicologi: un buon agente dev’essere chiaramente tutto questo e anche di più. E loro, ognuno col proprio stile, sono i migliori. Tra giornate frenetiche e nottate mondane, a rimetterci è la loro vita privata, anche se in fondo sembrano divertirsi troppo per accorgersene. Ma con la partenza del fondatore, Claudio Maiorana, le cose si faranno un po’ più complicate.
Call My Agent – Italia, scritta da Lisa Nur Sultan e Francesco Baccomo e diretta da Luca Ribuoli, era il pretesto sulla carta ideale per tornare a spiare nel buco della serratura del cinema italiano e delle sue nevrosi più esilaranti e paradossali, dopo il prototipo ovviamente irripetibile di Boris ma con in più la possibilità di sfruttare il potenziale divistico dei tanti, grandi nomi coinvolti. Peccato però che la gran parte dei 6 episodi sia disinnescata da una scrittura che si accontenta di inanellare senza colpo ferire i temi caldi del dibattito contemporaneo (politicamente corretto, quote, shitstorm) e le formule più pigre della comunicazione “cinematografara” (i presunti kolossal in proto-etrusco dei “Trono di Spade a Tarquinia”, la ricerca ostinata per gli algoritmi del “femminile irriverente” alla Fleabag, i remake francesi e quelli prodotti in ogni angolo del globo di Perfetti sconosciuti, i contratti americani, “l’anteprima di Martone”).
Una stanca e sorniona agenda, che fa il verso ai social o alle innocue scalette delle serate dei David di Donatello, senza mordente e senza graffiare, come se bastasse mettere insieme Licia Colò e Michael Moore nella stessa frase per strappare una risata. Paola Cortellesi, Paolo Sorrentino, Pierfrancesco Favino, Anna Ferzetti, Matilda De Angelis e Corrado Guzzanti, protagonisti rispettivamente di ciascuna puntata monografica, recitano tutti nei panni di loro stessi, e ognuno di loro col suo arco narrativo è portatore di una discreta dose di occasioni perse, al netto dei possibili sorrisi che di tanto in tanto l’ingranaggio di comicità, situazionismo e punch-line riesce a strappare.
La prima è intrappolata in una sorta di progetto alla Il primo re o Romulus di Matteo Rovere, guidato dall’ossessione per una lingua italica antichissima e da riportare in vita (ovviamente a istruirla c’è Alberto Angela), e i produttori americani la ritengono troppo vecchia per recitare accanto a Brad Pitt, co-star dell’operazione (nei panni di Tarquinio Prisco!), ma non c’è quasi nulla che a partire da questa miccia costruisca situazioni e battute degne di nota, al di là del gusto fin troppo reiterato per gli accostamenti stridenti (il modello preso in prestito dalla serie francese è la vicenda dell’attrice Cécile de France, anche lei affaccendata in quel caso con problemi anagrafici).
Sorrentino, che aveva già interpretato se stesso in Boris, è invece il più auto-compiaciuto ma anche il più auto-ironico di tutti: nulla che Maurizio Crozza non abbia già parodiato e rimasticato meglio, in fin dei conti, ma il proposito di realizzare un The Lady Pope con Ivana Spagna suona uno sberleffo estremamente calzante, auto-rifilatosi dall’autore de La grande bellezza con precisione millimetrica e chirurgica. E il monologo sul tetto dell’agenzia con grande protagonista “l’entusiasmo immotivato”, già diventato virale online e scritto com’è facilmente intuibile dal regista di suo pugno («La verità funziona coi registi rachitici, avari, io sono un generoso», fa dire a se stesso), è uno dei pochi must see di una serie quasi mai in grado di bilanciare tempi comici efficaci e adeguato sviluppo delle singole storyline, connubio che era invece una delle maggiori frecce all’arco della serie francese e che, nonostante la copia carbone operata, non si è riusciti a replicare nel tutto.
Favino rimasto impantanato nel ruolo di Che Guevara per aver esagerato col metodo, sulla falsariga del Jean Dujardin dell’originale, e Matilda De Angelis funestata da ondate di critiche, per una battuta di quart’ordine che ricontestualizza il film La scelta di Sophie con Meryl Streep, forniscono qualche ulteriore momento gustoso, ma è comunque troppo poco per il dispendio di energie scomodate. Più intermittenti, ma anche più obliqui e spiazzanti, sono invece gli episodi finali con Accorsi, prigioniero del mantra “da un’idea di Stefano Accorsi” e soverchiato dallo stakanovismo, e Corrado Guzzanti, irresistibile nel giocare di rimessa rispetto a tanti vezzi idiosincratici che lo circondano e nel dover gestire le strampalate ambizioni di carriera di Emanuela Fanelli (il cui personaggio si chiama Laura Pericoli e si lamenta perché lavora meno di Federico Ielapi, il giovanissimo Pinocchio di Garrone).
In un cast di volti di contorno che faticano a spiccare ed essere in palla (ed è uno dei principali problemi), in Call My Agent – Italia si fa notare la sorpresa Francesco Russo (già visto in A Classic Horror Story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli) in un ruolo misuratamente almodovariano ma anche di buona sostanza, con stilettate comiche puntualmente a segno e tante battute – le più metacinematografiche e affilate, a volte – affidate non a caso al suo personaggio: una maschera piccola ma solo apparentemente secondaria, che non sa o meglio non vuole scegliere tra Borghi e Marinelli perché sarebbe come «scegliere tra mamma è papà», indossa delle felpe pretendendo di citare Lo chiamavano Jeeg Robot e dice cose come: «Sono o non sono il tuo giovane favoloso?».
Foto: Palomar, Sky Studios
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