Se su RT ha il 34% e ha floppato al boxoffice, io qualche domanda in più me la porrei. Così come Fincher che, dopo “Se7en” (1995) e “Fight Club” (1999), è andato scivolando verso temi meno esistenziali e più sociologici, altrettanto potrebbe dirsi per Mann escludendo “Manhunter” (1986) e “Nemico pubblico” (2009). I suoi thriller metropolitani sono un’analisi dell’uomo contemporaneo e, in quanto tali, lasciano il tempo che trovano, figli di quest’epoca alla stregua d’un “instant movie” o d’una foto con Instagram. Potrà giusto titillare la soggettività narcisisticamente vanesia ed egotica dell’odierna generazione, quand’invece un Dillinger parl’ancora a noi tutti e di tutti noi. Inoltre i suoi celebri faccia a faccia tra protagonista e antagonista rimettevano in gioco la netta separazione fra bene e male, mentre qui Hemsworth è un eroe tutto d’un pezzo, i suoi trascorsi delinquenziali sono solo raccontati e sembra il calco del Gere di “The Jackal” (1997): ogn’ambiguità etica è svanita. E parlare/narrare/affrontare il negativo della vita partendo da singoli episodi, il terremoto di Lisbona, Auschwitz, l’11 settembre, è pessima filosofia poiché indirizza l’attenzione su drammi specifici piuttosto che sulla cruda normale epica da survival nel quotidiano. La condizione post-catastrofe sussiste da sempre, contestualizzare l’argomento ne ostacola la generalizzazione. Il Moretti d'”Aprile” e non solo eccede nell’intimismo tinellista, però è vero che Mann non sa scrollarsi di dosso la straordinarietà tarocca del blockbuster hollywoodiano. Un aitante hacker in galera per aver falsificato carte di credito: l’identità propria e altrui messa in discussione, cybervirtualizzata, codificata in stringhe alfanumeriche, resa evanescente e intrappolata al di fuori della corporeità che dovrà essere riconquistata al costo di lacrime e sangue. Appena esce di prigione s’imbambola a vedere la distesa libera e deserta davanti a sé: una libertà e un deserto che saranno colmati frame dopo frame, magari anche con la fisicità romantica d’un rapporto amoroso assieme alla figura forse più apatica e inespressiva dell’intera filmografia manniana. Diagnosi e terapia da retroguardia, lo sguardo d’un settantenne nostalgico sui geek attuali, l’ottica d’un classicista sul postmoderno: il modo ottimale per scontentare chiunque tranne forse qualche cinefilo idolatra dell’anticonformismo estetico del regista. Ops: del Maestro. Frase: “Abbiamo guardato dalla prospettiva sbagliata.” Stacco. Scena successiva: silenzio per due minuti e poi l’immagine d’un ragazzino che cammina facendo la verticale (http://oi59.tinypic.com/ila77t.jpg). Questo sì ch’è limpido genio simbolico. Strascult immediato.
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