Nel caso del sempre sorprendente Inarritu, il paradosso registico, o forse l’incantesimo della sua unicità, si cela nelle macroscopiche difficoltà di interpretazione delle sue scatole magiche. E proprio quando decide di regalarci una storia semplificata, libera dalle sue proverbiali vertigini intrecciate, ecco che tutto si complica. Si fa, se possibile, ancora più macchinoso da seguire del suo passato più o meno recente, fatto di Amores Perros, 21 Grammi o Babel.
Biutiful è un film che si scrive come si pronuncia, ma non si sa altrettanto bene come leggerlo. Perchè denso di simboli e colori, o forse di sottrazione di colore. E come tutto ciò che è buio, nasconde sottopelle formicolanti chiavi di interpretazione che affascinano, ma distraggono dal focus della vicenda.
Un racconto che vien voglia di riavvolgere quando è appena concluso, per riannodare trame e immagini lasciate appese, sparse qua e là, come in un labirinto in cui procedere a tentoni.
C’è di sicuro una tematica sociale, un tete-a-tete moderno con l’ inferno dell’immigrazione, che tinge Barcellona di un’ anima diversa dai suoi clichè, se vogliamo sinceramente gotica, assai più delle guglie stereotipate dell’ onnipresente Gaudì. La scenografia violata della città catalana, il suo annientamento visuale, sono forse la cosa che più stupisce di Biutiful, per la forte carica di novità nel nascondere completamente un simbolo mondano, velandolo dietro il disturbo sociale dei suoi ospiti più sgraditi. I clandestini, quelli che non vedi mai, diventano protagonisti ben più illuminati e visibili della gente per bene, che appare solo di spalle, con la scritta “Policia” sulle bluse.
Come spesso accade nel cinema autoriale, i fotogrammi sono intrisi del colore che raccontano. E allora la dominante che spadroneggia è un verde malato, di acqua che ristagna, di mancanza di ossigeno e di futuro. Palleggio splendido con la sensazione di oppressione che non si tradurrà solo nell’ asfissia esplicita di una manovalanza cinese che sembra presa a prestito da Gomorra, ma volteggia come un avvoltoio inevitabile su tutto il fabbricato del film.
Bardem, al solito magistrale nel lavoro masochistico di privazione della sua erotica vitalità latina, sostanzialmente va a morire, progressivamente, inesorabilmente, senza sconti, senza lasciarsi nulla che possa propriamente definirsi vita, se non la paura della vita stessa. Non c’è pietà neppure nel suo rapporto protettivo con i bambini, c’è soltanto la fretta di coprirli alla men peggio, costringendoli, però, a crescere dentro abiti che sono intrisi di violenza. Non c’è passione, semmai pena, nel rapporto bruciacchiato con la sua donna, lei sì, disperatamente appesa all’ amore, pur se con il filtro della sua follia.
C’ è soltanto un momento di vita, di senso tattile, ed è paradossalmente il più macabro di tutti. Quella carezza al corpo mummificato del papà, è sinceramente l’ unico istante di ripugnante passione. L’ immagine più bella del film.
Senza dimenticare, per non fare torto ad un vero talento visuale prima ancora che registico, lo splendore di una doppia metafora setacciata tra le tante apparizioni che si succedono sullo schermo. Ci sono balene spiaggiate sui televisori di un negozio perso per strada, e ci sono uomini spiaggiati da cadaveri, tante scene più in là. Stessa disposizione prospettica dei corpi, stessi colori, un parallellismo di altissimo valore simbolico. Tanto quanto quegli insetti che si muovono lenti ed incomprensibili come icone apparentemente fuori posto, ma che poi tornano magistralmente sul ring quando scopri che sono metafora di quegli uomini-insetti, brulicanti ed aggrappati alle pareti come ragni, nel loro sepolcro di gas.
Un film che ricorda nella sua complessità le architetture geroglifiche egizie. Senza la pazienza di una chiave di lettura può sembrare asfittico ed ingombrante, ma una volta colto il senso di marcia, può svelare scrigni di bellezza. Che raccontano il destino di un padre, incapace di essere padre del suo destino.