Birdman – O l’imprevedibile virtù dell’ignoranza: la recensione di loland10

Birdman – O l’imprevedibile virtù dell’ignoranza: la recensione di loland10

“Birdman o L’imprevedibile virtù dell’ignoranza” (Birdman or The Unexpected Virtue of Ignorance, 2014) è il quinto lungometraggio del regista messicano Alejandro González Iñárritu.
‘Anche a lui hanno messo il costume’. Il costume della vergogna, il costume facile, il costume adesivo, il costume senza volto. Per un blockbuster di turno il costume vale una (buona) stagione. E la vendemmia di nun vino sempre da bere.
Il film di Inarritu trasloca pensiero e animo nel trambusto di un set itinerante tra un teatro da realizzare, un pubblico da far entrare e una Broadway euforica fuori mentre il saluto allo spettacolo (di cultura) si riduce ad una vera pioggia e ad un selfie continuo lungo i canali elettronici di imperanti cellulari.
E’ il carnevale della maschera perenne e di ciò che essa può dire perché per scherzo e per scherno ciò che si si alza sballa e traballa tremendamente davanti alle luminarie inconfondibili di Broadway tra il Majestic e St. James. Triturante orgiastico di contro indicazioni il filnm di Innarritu 8fresco di premi a breve) non irrita e non strida ma inciampa (per chi srriva) sul (veramente più bello) cioè il finale (o meglio i troppi detti per i finali) che sembrano chiudersi su se stessi per non dire più nulla tanto compiacenti (nel non farsi notare) da sembrare (smaccatamente) un film di ridondanza (chi sa se forzatamente voluta) di ‘in’ hollywoodiano per piacere di là e di qua del confine messicano e compiacere il pubblico oltreoceano.
E nel gioco ripetitivo delle maschere tra teatro sul palco, teatro in strada, reality in diretta, tweet idolatrato, pubblico ansimante e dietro le quinte che è davanti a tutti noi (come sembra il non sembra), il girovagare della ripresa è di corsa in corsa seguendo le voci aizzanti, i culi rottamati, i nudi vezzeggiati e il sangue in arrivo, dietro di dietro, re non per una notte (e Scosese viene citato..come per dire mi confà); mentre in ogni angolo (o quasi) spunta la voce (fuori campo) della coscienza ‘dell’uomo giocattolo’ Riggan Thomson (il ‘birdman’ affamato di successo, al pari nella gogna un irriverente ‘film intellettualoide,’ e vorace di applausi intensi per dissipare dubbi e ‘smascherare’ gli altrui pessimi giudizi), che non ansima per nulla ma brandisce ad ogni costo l’excalibur del plauso incondizionato per districarsi con foga nel fumoso mondo degli effetti speciali (e per un attimo il regista messicano ci regala l’antitesi di una tesi e il luccichio di un racconto vuoto e da box office continuo…perbacco è lo ‘studios’ che si compiace di un film da inventare…) mentre il poster ‘blockbuster’ è sempre lì davanti e dietro, rotolato e staccato a ricordare (e ricordarci) l’aureo passato di un attore che vale quello che vale (oggi) in una recita teatrale (Raymon Carver) dove l’amore sfugge (anche perché l’amore per il cinema non abita più lì) e la star (‘batacchia’) Mike Shiner in posa non lascia nessuna pausa e parole per Sylvia Thomson…che non disdegna uno sguardo nel ‘vuoto’ (interiore) con un panorama sul via vai davanti alla Broadway di St. James…una vita in eterno movimento dove il sogno è una ripresa continua (senza pause) tra palco, platea, corridoi, camerini, entrate, uscite, assalto, assalto, fan e dismissione continua di ogni buco di gloria. Tutto, ma proprio tutto in un giro a trecento-sessanta-gradi, in ripresa in spalla, fino all’ultimo quando lo sguardo di una figlia guarda fuori una finestra, fuori ogni ripresa e ci lascia senza farci vedere.
E’ proprio lì (nel colpo di pistola vero e verosimile) che cade il marchingegno (quasi) perfetto del regista messicano: troppi aloni rincuoranti, fugaci fughe, specchi e immagini, specchietti e allodole, contorsioni e vite, viso e plastica, voci e odori, naso e setti e un sospetto di ‘glaumorizzazione’ del tutto. Inarritu ci provoca sul serio, ci avvinghia alla sua ripresa di corsa e a fianco del suo set dentro a set itineranti, ma sul più bello (almeno per chi scrive) e a conti fatti, il resoconto appare labile e non convincente e la sveglia del successo ‘web’ per il ‘sangue’ in scena fa volare…l’uomo fuori una finestra mentre la figlia guarda in alto evocando un qualcosa di ‘bello’ e da ‘prendere’; tutto mentre il film mette i titoli di coda con la musica in primo piano (come nello script della pellicola tutta) della batteria ‘fulminante’, ‘vitrea’, ‘languida’ e di ‘leccornia’ di Antonio Sanchez (The Anxious Battle for Sanity) concittadino del regista e in recita con strumentazione appropriata.
Il ripetitivo-ridondante-schiumoso-refrain-party-teatrale saccheggia a piene mani molti per ‘dimostrare’ di essere in un cinema (d’elite) di sequenze e hollywoodiane riesce il tocco di esserci dentro e di pareggiare con molti per mostrare(ci) un film ‘di cartapesta’ come gli studios sanno fare (benissimo): è il lustrino finisce bene che la ‘major’ Oscar premia se stessa e altri(o) per far capire (ove c’è ne fosse bisogno) che l’industria (vuota) c’è ancora per ripetersi. Inarritu fa un film ‘(d’i)contro’ per essere a passeggio nel provincialismo (becero) di un’atelie delle illusioni. Che tali rimangono alla fine (purtroppo..)..nel volo (?) di ‘birdman’.
E sì che aspettavamo il colpo di grazia con saccenteria eccelsa, acume interdetto e voracità pseudo volante (nel senso di ‘birdman’ a tutti gli effetti…) mentre il clamore si perde il teatro apre le porte (di forza) per l’uomo in mutante per salire i scena mentre la platea ‘stordita’ vede il palco che cammina e la recita che confonde. Vita, teatro, cinema, finzione, successo, disastro e un volo(?) per finire.
Nella circumnavigazione di ripresa del regista messicano assopiscono dentro alcune menzioni di pellicole salutari e da aggettivare: ‘Gli uccelli’ ovverosia il brivido è fuori tempo (The Birds, 1963, di Alfred Htchoock)), ‘Hollywood Party’ e l’uomo Hrundi scompiglio per eccellenza (The Party, 1968, di Blake Edwards), ‘Taxi driver’ e lo specchio-degenza di Riggan-Travis (Taxi driver, 1976, di Martin Scorsese) e ‘I protagonisti’ e le star Mike stranulate senza indirizzo (The Player, 1992, di Robert Altman). Percorso/i senza tempo tra camere e camerini con pochi lustrini e vestiti smembrati. E’ l’America oggi di un teatro all’aperto (‘Venere’ atempore in posa lineare di Polanski ultimo).
‘Birdman…’ alla fine è puro stile (teatro)cinema hollywoodiano nel clamore del chiuso di St. James. Un omaggio alla cartapesta con uso di fosforo.
Si deve dire che il cast risponde bene (e benissimo): parte maschile, Michael Keaton (Riggan –da bat a bird…man-), Zach Galifianakis (Jake) e Edaward Norton (Mike –post ‘Hulk’ script…-), che femminile, Emma Stone (Sam), Andrea Riseborough (Laura) e Amy Ryan (Sylvia).
Ottima la sonorizzazione, i rumori di fondo e la musica (Antonio Sanchez); fotografia di grande impatto e visivamente ora torbida, ora rabbuiata, ora artificiosa del messicano Emmanuel Lubezki Morgenstern (vincitore dell’Oscar) che ha lavorato con tra l’altro con Malick, Cuaron, Mann, Burton r i Coen.
Regia di A. Gonzales Inarritu efficace e debordante (fidandosi troppo della sua stessa sceneggiatura in collaborazione).
Il film aprì il Festival del Cinema di Venezia (2014), ha ricevuto nove nomination agli Oscar e ha vinto quattro Premi Oscar (per film, regia, sceneggiatura originale e fotografia).
Voto: 7,5.

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