Mark Hogancamp (Steve Carell) ha perso la memoria dopo essere stato vittima di un pestaggio a sfondo omofobo, che l’ha ridotto quasi in fin di vita. Per riuscire a superare questo trauma che paralizza la sua esistenza, l’uomo s’inventa un villaggio di finzione in Belgio collocato all’interno del giardino della sua abitazione. Uno spazio che Mark fotografa e anima attraverso delle riproduzioni umane in scala, raccontando, soprattutto a se stesso, le avventure di Hogie, pilota americano impegnato contro i nazisti durante la Seconda guerra mondiale che, guarda caso, ha il suo volto.
Robert Zemeckis è uno degli ultimi grandi registi umanisti del cinema americano. Il suo nuovo film, Benvenuti a Marwen, conferma in maniera inequivocabile questo afflato, che va di pari passo con una vocazione alla sperimentazione che negli anni non si è mai fermata. Dalle motion capture di A Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol ai fantasmi cinematografici del bellissimo (e sottovalutato) Allied – Un’ombra nascosta, passando per l’eroismo problematico bigger than life di The Walk e Flight.
Quest’ultimo film, con protagonista Denzel Washington nei panni di un pilota d’aerei imbottito d’alcol che nonostante tale condizione compie un gesto eroico, si ricollega direttamente alla natura dolorosa e post-traumatica di Benvenuti a Marwen, che per di più vede gran parte dello sforzo registico di Zemeckis (e del suo protagonista) concentrarsi sulla rielaborazione in stop-motion della realtà. A riprova di quanto la carriera del regista di Ritorno al futuro sia legata da un filo rosso evidente, che intreccia di volta in volta la riflessione sull’uomo all’esplorazione delle tecniche digitali. Facendo convivere dato scientifico e calore sentimentale con una vicinanza sconcertante tra i due poli, che ha davvero pochi eguali.
In Benvenuti a Marwen, tratto da una storia vera già portata al cinema nel documentario Marwencol del 2010, tale compresenza si arricchisce però di un elemento ancora più struggente, perché il personaggio interpretato da Steve Carell è un fotografo di miniature che fa i conti con la necessità commovente di una ricostruzione dalle macerie, fisiche e morali, materiali e simboliche. Un gesto di resistenza che lo investe in prima persona, che gli consente di rimanere aggrappato ai suoi demoni controllandoli con un obiettivo, mettendoli in scena, setacciandoli.
Il film di Zemeckis, rispetto ad altri episodi della sua filmografia, è ancorato in maniera più evidente a una singola idea molto forte, che Benvenuti a Marwen si fa bastare senza tentare salti e turbinii ulteriori. Questa costrizione, però, ci costringe a essere spettatori “raddoppiati”. Assistiamo a un processo: un meccanismo in atto, una persona che si guarda allo specchio, si ricrea, si giudica. Guardiamo a nostra volta qualcuno che ha già fatto della condizione di osservatore l’ultimo baluardo possibile della propria esistenza, l’ultima ancora di salvezza che gli è concessa.
Il dispiegarsi davanti ai nostri occhi di questo ingranaggio voyeuristico, alimentato da tanto disagio e da una candida, spudorata forma di alienazione, ci costringe, a corrente alternata ma in maniera irreversibile, a riflettere sui vizi di forma delle nostre visioni del mondo e dei nostri processi immaginativi, su quanto dolenti e imperfette possano essere le loro traiettorie (un esercizio di psicoanalisi, di fatto, cui si sottopone Zemeckis per primo).
A visualizzare concretamente l’utopia di un gioco serissimo, com’è quello di Mark, così intimo e privato da rimescolare ogni certezza, da indurlo a fare i conti con una paralisi indicibile: la sua inadeguatezza rispetto al mondo femminile, cuore del film che trova il suo apice nella meravigliosa sequenza della proposta di matrimonio. Un momento silente e sconcertante che pochi altri attori, all’infuori di Steve Carell, avrebbero potuto reggere con una grazia altrettanto disarmante.
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