Un kolossal visivamente impressionante. Un sequel superiore al suo predecessore.
Quando “Avatar” (il primo film della saga) di James Cameron debuttò sul grande schermo nel 2009 segnò una nuova era cinematografica rivoluzionandola con la pionieristica tecnica di un 3D all’avanguardia.
Quella pellicola registrò record a non finire, incassò 2,9 miliardi di dollari in tutto il mondo (4° maggior incasso di tutti i tempi, senza tener conto dell’aggiornamento all’inflazione), 785 milioni di dollari negli USA, 68 milioni in Italia (mai più superati), e ottenne 3 premi Oscar su 9 nomination: alla miglior fotografia, alla miglior scenografia, e ai migliori effetti speciali visivi.
Visto questo planetario e straordinario successo, il regista di “Titanic”, “Aliens – Scontro finale” e “Terminator”, decise di realizzare una trilogia che avrebbe allargato l’universo narrativo di Pandora. Sempre rimandata. Ora, dopo 13 anni e ben otto rinvii, il tanto atteso sequel della suddetta opera filmica di James Cameron è arrivato: “Avatar – La via dell’acqua”, ambientato 15 anni dopo le vicende della prima pellicola e concentrato sull’oceano di Pandora e una parte della foresta pluviale, nonché sulla storia generazionale della famiglia di Jake Sully e della sua compagna Neytiri.
Nel 2012 Cameron iniziò a progettare il sequel autonomamente, pensandolo tutto sott’acqua.
Solo l’anno dopo coinvolse il team di sceneggiatori che ha delineato contemporaneamente quattro storie che continueranno a parlare del rapporto dell’Uomo con la Natura. Per scrivere tutte le singole sceneggiature sono stati impiegati complessivamente quattro anni.
Costato oltre 350 milioni di dollari (il primo “solo” 237 milioni di dollari), e girato contemporaneamente al terzo episodio della serie tra gli Stati Uniti e la Nuova Zelanda, per rientrare nei costi, questo secondo capitolo, dovrà incassare almeno 2 miliardi di dollari (da qui la non sicurezza di completare e far uscire nei cinema i capitoli 4 e 5). E la sua lunga gestazione ci fa sorgere anche l’interrogativo se non sia arrivato fuori tempo massimo. In ogni caso, pensare di non vedere un film come questo in una sala cinematografica – suo luogo elettivo grazie al buio, al grande schermo, e al 3D, totalmente e confortevolmente immersivi/identificativi (sommato al ritrovato piacere di riempire nuovamente i cinema dopo il prolungato e forzato digiuno dovuto alla pandemia da Covid-19), dovrebbe far ben sperare e rallegrare chi ne è coinvolto. Kolossal come questo non possono far altro che riconquistare l’interesse, la curiosità e la voglia a qualsiasi tipo di spettatore nei riguardi dell’esperienza cinematografica (esperienza vista come qualcosa di unica e altrimenti non replicabile), ma anche portare quasi a benedire l’uscita di questa pellicola nelle sale, perché vera manna dal cielo per esercenti e distributori, almeno per questo periodo.
Dopo questo breve excursus pre-produttivo e produttivo riguardo la realizzazione cinematografica del film, parlare di “un’opera-mondo” che di per sé a livello creativo-narrativo e a livello progettuale-realizzativo è denso, accurato e dettagliato, non è facile; e soltanto per l’immane, faticoso impegno profuso con entusiasmo, passione e determinazione su molti fronti, meriterebbe un doveroso plauso preliminare al di là di presunti pregi e difetti qualitativi. Il proverbiale perfezionismo di James Cameron lo ha portato a una cura meticolosa a livello stilistico/formale/tecnico di questo sequel; e, alla fine, visto gli eccellenti risultati che nel complesso esaltano tutto lo sforzo titanico ed entusiasmante compiuto dal film, si può affermare che i pregi hanno superato i “difetti”.
In questo godibile e piacevole sequel in live action, la trama ci fa ritrovare i due protagonisti Jake Sully e Neytiri ancora insieme e con figli al seguito, pronti ad esplorare lo sconfinato mondo di Pandora e ad affrontare nuovi conflitti con l’umanità. La coppia si troverà inoltre a fare i conti con i problemi coniugali legati all’educazione dei propri figli, ma anche con terribili minacce persino all’ecosistema e dettate dal ritorno degli umani, capeggiati ancora una volta dal colonnello Miles Quaritch, clonato insieme ad altri suoi commilitoni nel corpo di un Na’vi. La trama, però, è l’ultima delle cose che interessano a Cameron.
La sceneggiatura, scritta dal regista insieme a Rick Raffa e Amanda Silver, infatti è minimale, semplice, lineare, ma anche più strutturata e stratificata rispetto alla precedente, e punta tutto sulla grandiosità e magniloquenza visiva della messinscena e dell’esperienza da kolossal visionario nel suo insieme.
La pellicola non solo migliora le ambientazioni di tredici anni fa ma rilancia continuamente le sue ambiziose sfide. È tutto così credibile che l’immersione dello spettatore è naturale e molto affascinante. Ogni singolo dettaglio è dovuto essere stupefacente e coerente, in modo autonomo e in rapporto con ogni altro, al solo fine di catturare la curiosità, l’attenzione ma anche quella sensazione di magia avvertita dallo spettatore e dovuta al fascino tutto cinematografico di (farci) meravigliare davanti a ciò che ci viene proiettato sul grande schermo. Da qui l’encomiabile merito da parte dei realizzatori di quest’opera di aver saputo creare un mondo ex-novo e un campionario inedito del visibile, infrangendo così l’elevata soglia della meraviglia del pubblico sempre più alzatasi inesorabilmente negli ultimi anni. Nel seguire le varie vicende, i vecchi e i nuovi personaggi, lo spettatore si sposta verso scenografie ancora inesplorate dell’oceano del pianeta Pandora. Partecipa emotivamente molto di più del primo capitolo a moti e stati d’animo, a disavventure, viaggi, sentimenti e passioni di ogni personaggio e dell’intera vicenda narrata. Si addentra in location mozzafiato e incantevoli, ne subisce l’attraente e magnetico splendore; respira le atmosfere ora epiche, ora intimistiche, ora sospese, ora tensive, tra dramma e pathos sempre forti ed intensi.
La nuova tecnologia di Cameron, attraverso la quale il regista torna a ragionare su temi ecologisti, è inappuntabile e ineguagliabile: alterna i momenti girati a 24fps (principalmente i dialoghi) a quelli in 48fps e cioè le scene d’azione e quelle sott’acqua. I 48 fotogrammi al secondo dell’High Frame rate si sposano con la profondità stereoscopica e la performance capture nel mistero di abissi popolati da creature con i quali i protagonisti stabiliranno nuovi legami dello spirito. La sua scelta di regia è tutta a favore della spettacolarità pura, della sorpresa affascinante, di tutto quello che può oltrepassare i limiti della realtà. L’opera si concede autentiche pause di grandiosità visiva – la scoperta dei giganteschi cetacei Tulkun, la catastrofe finale, le lunghe sequenze sottomarine – catturando lo spettatore con lunghe sequenze che aggiungono poco al plot in sé e per sé, ma molto al gusto dello spettacolo immaginifico e fantasioso.
Dalla sequenze d’azione coreografate in modo pulito e girate con perizia, alla fotografia di Russell Carpenter, all’avvolgente lavoro sul sonoro, Cameron ancora una volta si affida al potere delle immagini.
E tutto ciò anche a discapito dei rischi incorsi sul piano narrativo, come una certa attenzione che si è data maggiormente alla descrizione anatomica di figure e creature rispetto alle dinamiche psicologiche dei personaggi; alle usanze della tribù rispetto ai conflitti che avrebbero mosso meglio la storia; o alla battaglia finale che a molti ha rievocato “Titanic” con “Aliens – Scontro finale”; o all’uso di dialoghi didascalici o di musiche reiterate o di eccessi in CGI nella lunga sua durata (190’). In sostanza: non indurrebbe a profonde riflessioni, non susciterebbe intense emozioni, ma solleticherebbe soltanto la percezione neuro-sensoriale dello spettatore.
Pretesti questi per dire che la nuova epopea dei Na’vi è piuttosto “debole” o poco avvincente sul piano narrativo, e che comunque l’opera farà fatica a sedimentarsi a lungo nel nostro cuore a livello profondamente emozionale e riflessivo.
Cameron affronta e forse subisce la caduta in questi rischi/limiti, ma riesce comunque ad infondere dignità e potenza alla sua opera, checché se ne dica o se ne voglia dire sul contrario e farlo apparire/ridurlo a una mera favoletta ecologista con scenari variegati, colori brillanti e dalla morale ovvia e scontata. Cameron fa tantissimo per ritrovare il senso del meraviglioso del primo capitolo e rievocare quel sapore magico del cinema dei primordi. Persino arrivando al paradossale: farci conquistare dalla reale Natura attraverso un mondo “artificiale”, una finzione realizzata con l’uso di una tecnologia all’avanguardia. Per questo scopo, sacrifica ogni altro elemento, ma per fortuna non si dimentica del fattore umano e spirituale.
Il fulcro di tutto è l’essenza dell’umano, qui simboleggiato dalla famiglia, sempre unita malgrado problemi e pericoli. Ma anche l’essenza dello spirituale che viene a svilupparsi nei legami tra gli esseri umani in ogni luogo e tempo della nostra esistenza.
Inoltre, l’allegoria ecologista e ambientalista assume nuove e più struggenti sfumature tematiche. Il regista rielabora e aggiorna i grandi temi del capitolo precedente sulla base dei mutamenti della società attuale, per trattare nuovamente di connessioni tra esseri viventi (dove la collettività deve prevalere sull’ego), ma anche di valori universali quali la famiglia (in questo caso molto allargata), l’amore, la convivenza con la Natura e la curiosità per tutto ciò che è altro da noi.
Il futuro sarà di chi saprà guardare il mondo con occhi nuovi. I valori che tanto dovrebbero contare oggi non devono essere quelli dell’arroganza e della violenza, ma dell’apertura al diverso – che sia un membro adottato della famiglia, una cultura che non conosciamo, un modo differente di percepire la spiritualità…
Perché questa è l’unica via per la salvezza del genere umano. Questo è “Avatar – La via dell’acqua”, la via del grande cinema…