Haneke torna a vincere la Palma d’oro con un’opera che descrive ed esplora i volti oscuri e crudeli dell’esistenza, di una realtà sempre sfuggente e nascosta. E lo fa tramite una cupa e cinica incursione nel mondo della vecchiaia e della malattia, dove il male che devasta i corpi si traduce in malessere che annienta le anime. A dispetto di ciò che può evocare il titolo, il film è tutt’altro che dedito al sentimentalismo e alla dolcezza. La pellicola è cruda, lo sguardo impietoso, la messa in scena sobria. Però fa commuovere e riflettere (non lascia mai interpretazioni univoche). La lucida e rigorosa indagine delle forme di violenza prodotte o subite dall’uomo, si concentra stavolta nell’amore di una coppia di ottantenni e nelle miserie di una malattia. E’ crudele e diretta l’immedesimazione nella loro sofferenza e nelle pieghe disperate di questo affascinante dramma da camera. Caratteristica del film è proprio la negazione di ogni retorica e giudizio morale, di ogni aspetto consolatorio, di ogni facile aspettativa e idea preconcetta su queste controverse tematiche. Il regista austriaco spiazza anche stavolta, lasciando a disagio lo stesso spettatore. Il film, complesso e interessante, intimista e sofferto, è un ritratto dell’esistenza che si e ci spegne, e di un lirico amore minato dalle complicazioni dell’età avanzata. A dar credibilità e spessore ai protagonisti sono le notevoli interpretazioni di Emmanuelle Riva (intensa nello sguardo e nelle trasformazioni del corpo umiliato dalla malattia), e di Jean-Louis Trintignant (afflitto e tormentato). Ammirevole è la cura formale e lo stile di regia che procede per sottrazione e fredda staticità: inquadrature fisse, lunghi piani sequenza, pochi movimenti di macchina, fotografia soffusa per un’atmosfera oscura e sbiadita, musiche classiche, ritmo lento, ambientazione claustrofobica. I logorii fisici di Anne e quelli psichici di Georges sono simboleggiati dalla limitatezza della casa, chiusa e oppressiva. Altrettanto ammirevole è il tratteggio, con tocchi di rara precisione e discrezione, della storia ricca di momenti sublimi, scioccanti nella loro chiarezza e semplicità. La sceneggiatura turba e coinvolge; è dura ma anche delicata. Essenziale e cruda, è tutta giocata su geometrici contrasti e inquietanti ambivalenze, come quelle che evocano i temi alti di Vita, Morte, Amore. Proprio quest’ultima parola, eloquente ed efficace titolo del film, sprigiona le inevitabili dinamiche, interrelazioni e compresenze della vita e della morte al suo e al loro interno. E’ l’amore autentico dei due anziani che li scatena con una forza centripeta e centrifuga. La sofferta intimità di questa coppia svela l’intimità della sofferenza e del dolore, nelle sue forme più agghiaccianti e profonde, perché irreversibili, insostenibili (i rapporti, l’assistenza, la perdita di autonomia, la fine inevitabile, le scelte difficili e strazianti). Esistenze e personalità sono sconvolte in modo brusco e tragico. Superano ogni limite tollerato e moralmente accettato dall’umana natura, perché troppo esasperati e messi a dura prova da una Natura imperfetta e da una Realtà assurda. La coppia anziana è vittima impotente di questo crudele meccanismo che minaccia ordini e sistemi lineari e destabilizza equilibri psico-fisici ed esistenziali; ma al tempo stesso diventa anche potente incarnazione di un’esemplare sfida di dignità nei suoi riguardi. Il gesto estremo di Georges nell’epilogo è la realizzazione massima dell’amore e della dignità. Ma è anche la propagazione di quell’orrore che annienta i due protagonisti. L’ambivalenza (dei sentimenti, ma non solo) che contraddistingue tutta la pellicola, continua. Ciò che si è costretti a guardare allora è solo l’impossibilità di fare i conti con una difficile ed incontrollabile realtà e con gli estremi angoscianti rimedi che essa comporta. E’ ciò che il regista ha voluto evidenziare con questa pellicola. Un raffinato e potente capolavoro che non ha paura di guardare in faccia le violenze che l’uomo compie e subisce ogni giorno. Anche nell’amore…
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