Il Padre Pio di Abel Ferrara ci riporta negli anni ’20, a quell’Italia di famiglie disperate, della povertà assoluta, delle malattie e dei disordini politici, di uomini affaticati dalla Prima Guerra Mondiale che avevano combattuto senza sapere bene in nome di cosa.
I giovani soldati tornavano nei villaggi, in quelle terre violente sulle quali la Chiesa e i ricchi proprietari terrieri esercitavano un dominio incontrastato. San Giovanni Rotondo – che oggi tutti riconoscono come il santuario di San Pio – era uno di questi villaggi. Ferrara racconta l’arrivo del frate in uno sperduto convento di cappuccini, per iniziare il suo ministero evocando un’aura carismatica, la santità e le visioni epiche di Gesù, Maria e del Diavolo.
Presentato in prima mondiale alle Giornate degli Autori della Mostra del cinema di Venezia 2022, il nuovo film del regista newyorkese, da tempo residente a Roma, racconta la storia del frate di Pietrelcina facendola dialogare da vicinissimo con l’eccidio di San Giovanni Rotondo del 1920. Come era facile aspettarsi non è un film su Padre Pio in senso propriamente detto, né sui miracoli e tantomeno sull’icona popolare, ma un ritratto allucinato e disperato ritagliato intorno a un’icona inquieta e tormentata. Ferrara ha affidato il ruolo, con una scelta di casting bruciante per tempismo e attualità, a Shia LaBeouf, anch’egli reduce da un periodo personale a dir poco travagliato e che nel film ha trovato, stando alle cronache, una panacea per i suoi demoni con tanto di conversione al cattolicesimo. La sua versione del personaggio è scavata, urlante, rabbiosa, animata da un fervore crudo e spietato, in costante dialogo tra sublimazione affannata del peccato e sporco realismo, sacro e profano, divino e laido.
Come il regista de Il cattivo tenente ci ha ormai abituato da molti anni a questa parte, Padre Pio è un film sommessamente e orgogliosamente slabbrato e liberissimo da ogni vincolo e urgenza, una meditazione personalissima che torna a scomodare temi carissimi a Ferrara come dannazione, redenzione, senso di addiction del singolo rispetto ai propri fantasmi e vuoti da colmare. Il suo Padre Pio non cerca la verosimiglianza del ritratto biografico, né la filologia della ricostruzione, ma soltanto il furore della vocazione e della fede da agguantare faticosamente, tra mille demoni e spettri. Lo spirito iconoclasta, grattando la superficie dei i limiti imposti dal budget e da tutte le circostanze del caso, è chiaramente per Ferrara quello di sempre, ma in Padre Pio più che sul singolo uomo si sofferma soprattutto sulla fede ideologica – e la via crucis politica a essa direttamente connessa – come mistica del collettivo, con un approccio “basso” e sempre più furibondo all’immediatezza del girare.
Come già il precedente, allucinato e catatonico Zeros and Ones, Padre Pio sembra un film più di poesia che di prosa, ancorato alle proprie sgrammaticature e a un’estetica maledetta e fuori dai bordi, che se infischia anche della storpiatura della lingua inglese recitata da attori italiani, ricorrendo perfino a una sequenza in cui Asia Argento interpretando un uomo alle prese col senso di colpa per le molestie verso la propria figlia e a un finale prossimo all’horror vacui e al body horror metafisico, al contempo viscido e umanissimo. Considerabile ormai a pieno titolo un regista europeo, Ferrara prosegue dunque nella propria vocazione (afflato più che mai calzante, dato il contesto) con cieca ostinazione, firmando un altro capitolo – e uno dei più liberi – della sua filmografia densissima e instancabile, sorretta da un indomito sperimentalismo resistente a ogni moda e bon ton.
Foto: Maze Pictures, Interlinea Film, Rimsky Productions